What do we see when we look at the sky?
Lasciandosi implicare dagli eventi di una città, Alexandre Koberidze compone e scompone una sinfonia urbana che è elogio e testimonianza della vita delle persone e degli oggetti.
Alexandre Koberidze non è interessato alle storie ma ai fatti, cioè alle possibilità di una storia, a ciò che una storia è in potenza. È interessato quindi alle città, perché le città sono miniere di potenziali racconti: Kutaisi, città georgiana un tempo capitale dell'antico regno della Colchide, rappresenta in questo senso un ricchissimo campo di possibilità. What do we see when we look at the sky? non a caso si apre con un’inquadratura cittadina, a camera fissa, che ricorda L'uscita dalle fabbriche Lumière: dei bambini escono da scuola attraversando un cancello ripreso frontalmente. Si tratta di un’inquadratura semplice, pensata non per iniziare una storia ma per rilevare un fatto; o meglio, la dignità di un fatto, la sua purezza, la purezza di una cosa che ha dignità d’essere prima di qualsiasi storia, prima di qualsiasi rappresentazione, prima di qualsiasi uso drammaturgico e anche nobilitazione poetica. I bambini semplicemente escono da scuola. Segue un montaggio sui dettagli della loro uscita, con i bambini che parlano tra loro eccitati e i genitori che li attendono un po’ impazienti; quando tutti se ne sono andati sulla strada di fronte al cancello due persone si scontrano e subito si innamorano: ancora non è l’inizio di una storia, ma un fatto tra altri fatti. Anche quando questi innamorati prenderanno il centro della scena – per un sortilegio che non permetterà loro di riconoscersi – la loro vicenda non diventerà mai davvero una storia, anzi, rimarrà spezzettata e sospesa tra altre cose intorno, come frammento interessante ma senza precedenza rispetto ad altri frammenti.
Se le storie hanno uno sviluppo, un arco, un racconto con cui si dispiegano, il fatto è invece isolato, unico, chiuso in se stesso. Ma che cos’è un fatto che viene troncato prima di poter diventare storia? Un fatto, astratto da qualsiasi possibile concatenazione di causa-effetto, è un evento: senza prima e senza dopo, esso esiste in sé come qualcosa di unico scaturito dal buio, una bolla risorgente per sua stessa forza luminosa. What do we see when we look at the sky? è pensato come una partitura di eventi fermati sul bordo di una storia che non accade mai e sta sempre un po’ più in là, in potenza: due innamorati cambiano aspetto e pur lavorando nello stesso bar per tutta l’estate non si riconoscono, due filmaker cercano di girare un film ma i loro sforzi sono resi vani proprio alla fine della loro ricerca, una fotografa vaga alla ricerca di coppie per un lavoro che fatica a portare a termine, il proprietario di un bar attende i clienti nell’estate del Mondiale di calcio e si ritrova in un attimo a smontare lo schermo che nessuno ha guardato. Insomma tutto accade senza accadere, rimanendo sospeso un po’ più del dovuto tra il passato e il futuro, la causa e l’effetto, come un pallone che dopo mille rimpalli sconnessi è scagliato in aria e rimane nel cielo per qualche secondo più del normale – la scena al centro del film è in questo senso una dichiarazione teorica rispetto alla propria idea di cinema. La sospensione trasforma tutte le vicende del film, persino quella che si potrebbe definire principale degli innamorati, in un crocevia di possibilità che stanno per attualizzarsi e intanto splendono come eventi.
Koberidze intuisce che la storia non è necessaria per raccontare la dignità dell’evento, anzi, è quasi un ingombro, ed è proprio la questione della dignità a convincerlo dell’assoluta rilevanza del fatto sulla storia: prima del diritto di raccontare le cose c’è il dovere di saperle ascoltare, di ascoltare con rispetto anche solo la loro mera presenza, e spesso l’obbligo di una narrazione distoglie dall’ascolto (il regista non è estraneo alle fascinazioni del documentario d’osservazione). Per questo nella costruzione del suo film non sceglie direzione, si fa carico di tutte, non impone dove guardare, apre piuttosto a una complessità di punti di vista che riconosce addirittura la vita all’inanimato (nel suo film gli oggetti sono vivi): nel suo cinema la cosa ha dignità prima della rappresentazione, non in quanto rappresentata; esiste prima di uno sguardo ed esiste dopo lo sguardo, il passaggio attraverso che si può compiere nei confronti dell’esistenza indipendente del fatto è solo di testimonianza, una testimonianza che è appunto attraversamento di un fatto, un ruotare attorno ad esso, sempre parziale. Koberidze crede a tal punto nella sospensione di ogni argomentazione narrativa rispetto al reale da chiedere di chiudere gli occhi di fronte alle sue immagini; il cinema in effetti per lui non sembra essere costruito da momenti di visibilità (la costruzione drammaturgica che dispone direzioni) ma da momenti di potenziale visibilità da cogliere nella fragilità passeggera, se non addirittura nella loro momentanea negazione.
Non è un caso che l’immagine più importante del suo film sia quella mancante: quando chiede di chiudere gli occhi di fronte all’incantesimo che trasfigura i due innamorati il regista produce nel meccanismo di visione spettatoriale il buio altrimenti impercettibile, il nero non esperibile dall'occhio umano che sta tra un fotogramma e l’altro, quel nero in cui sempre il cinema riposa nascosto come pura potenzialità, compressione di ciò che può essere o non essere. Nell’impressione cinematografica l’immagine passa continuamente attraverso un buio che costituisce la sua scomparsa provvisoria, ed è proprio perché rischia la scomparsa che quando torna luminosa l’immagine è più viva: la cosa che ha lottato contro la possibilità di scomparire, l’evento che vive dopo la sua possibile catastrofe, è più vivo. Innescando un’otturazione visiva il film opera un atto di innervazione sensoriale-mimetica per cui l'occhio si impossessa per un attimo dei meccanismi di funzionamento dello strumento cinematografico e vive così un’esperienza scopica intensificata: non funziona come un occhio umano ma come un occhio cinematografico che coglie in maniera più intensa lo splendere del fatto, cioè il risultato della sua lotta contro il buio. In definitiva assiste alla possibilità che il fatto accada ma anche che non accada, al momento di sostanziale ambiguità di fronte a un bivio, per così dire, ontologico tra potenziale accensione e potenziale annullamento. L’isolamento del fatto, si diceva sopra accennando alla sua qualità di frammento, era già di per sé riconoscimento della minaccia di una frantumazione, riconoscimento che qualcosa di intatto si è frantumato o che è stato in realtà da sempre frantumato, come un dolore esploso in mille pezzi cristallizzati solo dopo in un incantesimo pronunciato con timida voce, soffio di vento che porta segreto di una disfatta (la voce narrante proprio dopo la scena del pallone inquadra la vicenda in una cornice di presente doloroso).
Il buio dice la possibilità che qualcosa non sia, che qualcosa non divenga mai, che resti là in fondo al non compiuto come un amore irrisolto senza storia; il dolore si può infatti anche non ascoltare e non ha poi tanta voce per fare sentire le proprie ragioni. Ma Koberidze non vuole strappare il fatto al buio che potrebbe annullarlo attraverso una storia, perché costringere il fatto a una storia è una violenza. Il regista sceglie quindi la terza via, quella della relazione: non il negativo dell’annullamento, non il positivo della storia, ma quella soglia che non nega l’esistenza e non costringe all’esistenza, piuttosto è struttura mai del tutto conchiusa secondo cui le cose nel loro isolamento possono incontrarsi e accadere oppure possono mancarsi e cadere. I fatti per come sono, sempre nella loro dignità d’essere, vengono come raccolti in una realtà relazionale che li supera ma non esiste senza di essi, una realtà strutturale che è quindi spazio tra le cose, spazio definito dai contorni delle cose, disegno ottenuto soltanto grazie all’unione di diversi puntini. Il montaggio del film funziona proprio come linea d’intesa, tessuto connettivo virtualmente disteso a mezz’aria, in balia dei colpi di vento, come una ragnatela in grado di proiettare grandi architetture d’ombra se investita da una luce abbastanza delicata da non spazzarla via; esso non unisce arbitrariamente fatti isolati, è piuttosto un disegno formato da essi, proprio come quello enigmistico di puntini senza apparente senso che però nascondono già da sempre una virtualità codificata nella loro lontananza.
Il risultato è la produzione di uno spazio di vivibilità lontano da ogni forma di costrizione in cui la realtà guadagna la vita che merita. Tutto nelle immagini di Koberidze è vivo non alla maniera di qualcosa a cui è infusa la vita, ma come qualcosa che rivendica i propri diritti vitali. Si tratti di una piantina, di un lembo di cielo o di un gomito abbandonato su una sedia, si tratti in poche parole di fatti apparentemente inerti, ecco che questi fatti si impongono come esistenti. Ma di fronte a questa dichiarazione di esistenza colta dall’immagine come si pone l’occhio di chi guarda? Anche per l’occhio si apre uno spazio di vivibilità inedito: non più costretto ad abitare delle costrizioni drammaturgiche questo può vagare per la città, sospinto invece dalla frantumazione del montaggio relazionale e dall’apertura di immagini vive, che scambiano con lui discorsi sulla possibilità. L’incontro di un occhio liberato con immagini libere produce un ulteriore grado di libertà, quella che attiene all’inscrizione volontaria di un punto di vista all’interno di una visione condivisa con altri. Sono molte le scene di visione collettiva che costellano il film - su una visione collettiva del cielo da parte di alcuni bambini si chiude addirittura il film – e suggeriscono l’importanza di questo fenomeno per il regista.
Il paradosso di ogni visione collettiva è la generazione di un sentimento condiviso ma vissuto personalmente. Questo tipo di condivisione senza parole originata dal sentimento è la comunicazione più pura che l’arte riesce a generare. È diversa dall’amore, almeno in parte, perché si tratta della comunicazione di una verità profonda che si produce anche tra sconosciuti. Le immagini di Koberidze sono un inno a questo tipo di esperienza di comunicazione collettiva e in qualità di inno cercano di riprodurre il raffinato fenomeno della visione collettiva: non offrono una storia unica e conforme, sospendono anzi qualsiasi cristallizzazione che imponga un senso determinato; costituiscono così uno schermo che sintetizza il visibile senza zittirlo (attraverso la rete relazionale) e anzi lo apre alla varietà interpretativa più libera; uno schermo verso cui si può prendere posizione e che cambia, pur restando lo stesso, proprio a seconda della posizione che si assume nei suoi confronti. Le immagini di What do we see when we look at the sky? si pongono di fronte a chi guarda come il cielo del titolo, si fanno cielo: qualcosa che è indipendente dallo sguardo ma non indifferente ad esso, qualcosa di vivo che è figlio del buio e invoca comunque una vita possibile. Chiedersi che cosa vediamo quando guardiamo il cielo è chiedersi cosa vediamo quando guardiamo un film o più semplicemente cosa proviamo quando, assieme a qualcun altro, guardiamo il mondo.