Avengers: Infinity War
I fratelli Russo realizzano un film fuori scala in modo coraggioso e intelligente, raggiungendo i vertici qualitativi del MCU.
Ci vuole coraggio a fare un film come Avengers: Infinity War.
A dieci anni dalla nascita del Marvel Cinematic Universe e dopo ben diciotto lungometraggi, il mondo progettato da Kevin Feige è popolato da decine di eroi, quasi tutti presenti nella fase conclusiva di quello che è ormai di gran lunga il più dispendioso e remunerativo franchise cinematografico della storia del cinema.
Ci vuole un ardire particolare per girare un film del genere, ci vuole la consapevolezza di saper e poter maneggiare milioni di dollari, tantissimi personaggi e una storia nient’affatto convenzionale – non è esattamente una origin story, in cui è possibile, volendo, anche fare affidamento su un canovaccio consolidato – unita alla volontà di stupire, portando l’intera storia verso territori narrativi e tonalità fino ad oggi inesplorate. I fratelli Anthony e Joe Russo, chiamati a sostituire Joss Whedon dopo il parziale fallimento (sicuramente in termini di gradimento della critica) di Age of Ultron, avrebbero potuto fare un film molto più canonico, ottenendo con ogni probabilità un enorme successo vista la perfetta macchina di marketing di casa Disney/Marvel, ma hanno preferito non accontentarsi e optare per una profonda discontinuità creativa, seppur all’interno di un discorso organico e in limpido dialogo con il passato.
Con Infinity War inizia il tramonto della Fase 3 del MCU, quella in cui l’espansione del mondo più amato dagli spettatori del pianeta (numeri alla mano) si declina nella moltiplicazione dei film, delle opere e degli stili. Immediatamente prima ci sono stati il ritorno a casa di Spider-Man, lo scivolamento verso il magico di Doctor Strange, l’apertura al demenziale di Thor Ragnarok e l’allargamento degli orizzonti geografici e culturali di Black Panther. Soprattutto però c’è stato Civil War, ambizioso crossover che ha dato inizio alla Fase 3 e che si presenta come il più prossimo antecedente di Infinity War.
Siamo alla prima parte di un dittico conclusivo (sia Ant-Man and the Wasp che Capitan Marvel saranno ambientati prima delle vicende di questo film) in cui si assiste a una parata supereroistica difficilmente dimenticabile, a un carnevale di effetti speciali che ne fa il film più costoso di sempre, senza per questo però privarlo di un’anima forte e personale, sulla carta la cosa più difficile da definire e comunicare.
Per quanto il pubblico di massa abbia aspettato anni per vedere finalmente i propri eroi interagire sullo schermo – i Guardiani con Thor, Iron Man con Doctor Strange, il Wakanda con Captain America – Infinity War è prima di tutto un film su Thanos, il quale dall’inizio alla fine ribadisce con parole e presenza scenica il suo essere il vero baricentro dell’universo. Il capolavoro di Kevin Feige sta nell’aver creato un mondo fatto di personaggi capaci di seguire percorsi indipendenti e mitologie in parte autonome, configurando loro attorno l’inevitabilità dell’incontro con Thanos. Essendo questi il principale villain del MCU è dunque ritratto come protagonista assoluto, scelta in realtà non proprio convenzionale e di non banale importanza anche dal punto di vista teorico. Se il problema principale dei film Marvel è spesso stato quello di non avere un cattivo adeguato al resto, risulta ancora più significativa la decisione di fare di Thanos il personaggio con il massimo screen time proprio in questo film.
Le colossali proporzioni di questo crossover consentono agli autori di confezionare un racconto in grado di non deludere le aspettative di ogni tipo di spettatore. Un livello molto interessante, per esempio, è quello costituito dalle intersezioni tra gruppi di personaggi abitualmente separati e che in questo caso vanno a intrecciarsi andando a creare relazioni del tutto nuove oltre che divertenti. Cosa succede se si fa incontrare Thor con il gruppo dei Guardiani? È molto probabile che siano domande del genere la scintilla attorno alla quale viene costruito il plot, che per reggere deve però essere il più coerente, avvincente e giustificato possibile. O ancora: se Doctor Strange agisse insieme con Iron Man, Hulk e Spiderman? Come prenderebbero i fan una missione con i due Sherlock Holmes fianco a fianco? Si tratta semplicemente di fanservice, si potrebbe dire, ma è proprio sulla costruzione di questo genere di mondi, sulla loro intersezione e sulla soddisfazione delle aspettative spettatoriali che si regge un progetto di questa grandezza. Infinity War è anche per questo un film stratificato e plurale, dai molteplici livelli di lettura, come ogni blockbuster di questo genere dovrebbe ambire ad essere per intercettare tutte le fette di pubblico possibili parlando diversi linguaggi, tutti coerenti tra loro.
Per quanto le critiche ai film del Marvel Cinematic Universe non siano una rarità, affondare gli artigli ermeneutici nei confronti di questo genere di opere considerandole semplicemente dei film significa mancare completamente il bersaglio. Prima ancora di essere dei lungometraggi questi sono parte di un universo in espansione, un mondo finzionale che sta progressivamente divorando quello reale a colpi di merchandising e incassi nelle sale senza precedenti, veicolando una visione del cinema che sta cambiando i connotati alle major hollywoodiane e al loro modo di produrre (si vedano gli ultimi Star Wars).
Sebbene si possa non amare i supereroi, li si possa erroneamente considerare una moda, il MCU ha oggi un’importanza imprescindibile nel campo dell’intrattenimento, è una realtà che da anni occupa la cultura popolare costantemente, un mondo che pretende di essere abitato e che riguarda tutti, che lo si voglia o meno. Deal with it. Ogni critica ai film, per quanto ben argomentata, riguarderà sempre aspetti talmente micro rispetto al tutto in costante divenire, messo in piedi da Kevin Feige e i suoi fedelissimi, che quasi scomparirà senza più lasciare traccia.
Lo stesso Infinity War, infatti, non è certo esente da forzature narrative (Thor che incontra i Guardiani per caso, Bruce Banner che finisce da Strange in modo quasi fortuito), ma ciononostante costituisce un crocevia narrativo nato per catalizzare l’attenzione mondiale come quasi nessuna opera audiovisiva è stata mai in grado di fare: è un fenomeno di costume davvero inedito, soprattutto perché si tratta di un enorme contenitore che al suo interno contiene cellule in grado di andare verso tantissime direzioni.
La natura rizomatica dell’universo della Casa delle Idee – che fino a ieri ha offerto film dal gradimento critico altalenante ma sempre capaci di stimolare l’attenzione collettiva – si esprime in questo caso nel modo più concentrato immaginabile, autoperimetrandosi all’interno di un singolo film senza mai però elidere nessuna delle sue molteplici facce.
Dopo dieci anni di supereroi sarebbe stato lecito piazzarsi sulla riva del fiume aspettando il cadavere di un progetto che ha avuto momenti di grandissimo splendore e che pertanto si sarebbe potuto permettere un fisiologico cupio dissolvi. Così non è stato: i fratelli Russo rispediscono al mittente qualsiasi critica realizzando un film spericolato e vivissimo, dalla natura magmatica e proteiforme, in grado naturalmente di far ridere, ma anche di presentare una versione inedita dell’action, imprevedibilmente spaventosa, malinconica e di inedita cupezza.