La vita della 12enne Cate nella periferia marcente e degradata di Cagliari, in una famiglia numerosissima in cui albergano fratelli tossicodipendenti che vogliono far fuori potenziali fidanzatini nerd, sorelle battone, un padre erotomane che non hai mai lavorato una giornata intera in vita sua ma che percepisce comunque la pensione d’invalidità. Nonostante tutto ciò, Cate e la sua inseparabile amica Luna mordono la vita per le strade del loro rione, il Sant’Elia, impasto suburbano venato di pasoliniano e palazzine svettanti. Quasi una città a sé, dimenticata dalla misericordia divina e abbandonata a se stessa, alle sue perverse deviazioni da ogni auspicabile canone di normalità.
Al suo quarto film, il regista sardo Salvatore Mereu si conferma talento stilistico non da poco e autore capace di regalare quadri visivi impareggiabili per forza, compattezza e radicalità delle suggestioni proposte. Sia nella quadripartita opera prima Ballo a tre passi che nell’opus numero due Sontàula, in cui come in Bellas mariposas la lingua sarda assumeva una strumentale valenza poetica, l’affresco micro assumeva una dimensione macro e il particolare sfociava organicamente nella rappresentazione dell’universale. La specifica collocazione local del cinema di Mereu è in fondo volontà di perdersi tra le proprie origini ma anche di raccontare ciò che si conosce meglio: il punto di partenza più consolidato, in altre parole, per approdare a una dimensione di complessità partendo da dinamiche note in profondità, rivisitandole tra lampi d’invenzione e punte di abbagliante realismo magico. Nel suo ultimo, bellissimo film, presentato in Concorso nella Sezione Orizzonti di Venezia 69 e premiato a Rotterdam e non solo, Mereu si abbandona ai rumori della sua Cagliari facendo combaciare il proprio racconto con la prospettiva sul mondo di una ragazzina sfrontata, una giovane donna dalla sincerità che ti scuote a più livelli ed è così vera da metterti quasi a disagio. Nel fare propria la leggerezza del racconto di Sergio Atzeni da cui il film è tratto non lo tradisce sfacciatamente ma lo piega piuttosto allo spirito alle sue esigenze, alla spontaneità di un flusso diaristico orchestrato in prima persona dalla stessa protagonista. Un impianto che si fa cifra espressiva massima di una storia innestata sulla forma pregnante del monologo a cuore aperto, in cui Cate non di rado parla in camera fissa e si concede allo spettatore in tutta la già violata vitalità dei suoi dodici anni. Una struttura tanto peculiare quanto rischiosa, specie per un piccolo film italiano, che dà in compenso il la a una serie di meravigliosi inserti e divagazioni, delle lacerazioni che somigliano a tunnel incantati, ai sentieri dell’evasione da una realtà carceriera che può essere solo vagheggiata.
Avrebbe tutte le ragioni per esserlo ma non è in alcun modo un film depresso, Bellas Mariposas: l’oscura cupezza non si confà in alcun modo al suo orgoglioso monito di cieca speranza, alla naiveté irrinunciabile delle sue due protagoniste (le splendide esordienti Sara Podda e Maya Mulas), a un dramma che proprio perché ricorre a delle forme grottesche e ipertrofiche è tanto più incline a essere stemperato in un’allegria divorante e a tutto campo. Fedelmente al mantra enunciato dalla sua stessa protagonista secondo cui: “Non c’è nulla da vedere né da nascondere”, Mereu mostra e non giudica, tra disagio umano e incontri sessuali davanti il palazzo di Giustizia, tra malati bagliori popolani e la purezza liberatoria e onnivora della macchina da presa, che accoglie tutto e non filtra secondo dettami morali precostituiti. Ne viene fuori un solare ritratto adolescenziale a due voci che a Venezia ha fatto il paio con L’intervallo di Leonardo Di Costanzo e che riesce laddove il deludente Acciaio di Mordini falliva. Nessuna eccessiva tendenza all’inscurirsi premeditato di una messa in scena pretenziosa e grossolana come in quel caso, tutt’altro. Le ragazze-farfalle di Mereu, boccioli che stanno per sbocciare e in fase di trasformazione, esaltano il potere propulsivo del corpo femminile sopra ogni cosa, un veicolo da intendere ancora nel miglior modo possibile quale portale di libertà cercata e voluta, di indipendenza pervicacemente conseguita in un mondo in cui la grettezza obnubilante del genere maschile intenderebbe farla da padrona. Delle sirene, che nuotano e provano a dimenticare (“Dovevo nascere pesce”), che svolazzano con libertà superiore in un impasto di suoni variegati, di immagini dall’estetica non compromissoria e pulsante di vita in ogni suo anfratto. In scenari dai toni fortissimi, che fanno contrasto con il grigiore asettico delle palazzine e di una certa piccolezza diffusa (“Voi non sapete cosa vuol dire vivere a casa mia…”). Il tutto in nome di un’autenticità di corpi e luoghi che non danno nessuna idea di artificiosità, come se questa storia si fosse fatta da sé e non sotto il vigile sguardo di un sapiente demiurgo. Di gelato in gelato sotto un cielo sempre più assolato e impietoso, Cate e Luna vivono e basta, non si interrogano, non razionalizzano. Due piccole grandi figure brucianti e realistiche al sommo grado, rivoluzionarie e spiazzanti, lasciapassare per una magia che si auto-preserva tra i detriti della bruttezza imperante. Un film che rapisce col suo incanto dalla prima all’ultima inquadratura, Bellas Mariposas, forte soprattutto del respiro innervante delle sue immagini e della viva luminosità dei suoi colori preziosi, ostentati con lo stesso (s)garbo sfacciato delle protagoniste.