Kaili Blues
Orgogliosamente ambizioso, manifestamente tarkovskiano, l’esordio del cinese Bi Gan è una fluttuazione cinematografica onirica e vertiginosa che segna la nascita di un autore.
Non ha mai fatto mistero, il giovanissimo Bi Gan, del ruolo aurorale cui è assurto, nella sua formazione cinematografica e presumibilmente esistenziale, l’incontro con Andrej Tarkovskij e in particolar modo con il suo Stalker, eretto dal regista cinese a modus narrandi e filmandi dichiarato fin da questo suo bellissimo debutto, ricoperto meritevolmente d’allori (tra Locarno e il Golden Horse).
In Kaili Blues c’è un medico ex galeotto, Cheng Sheng, che in cerca del nipote smarrito, Wei Wei, lascia la provincia subtropicale di Guizhou, dove esercita, e finisce per addentrarsi e rimanere irretito dal cortocircuito spaziotemporale di Dang Mai. Villaggio misterioso, frammento limbale di subconscio nel quale scontrarsi con squarci raminghi del proprio passato, luogo foriero di reminiscenze verbalizzate e incorporee, presenti-assenti; zona più atmosferica che fisica, d’ispirazione tarkovskiana appunto, ma soprattutto affettiva, d’immagini-tempo-sentimento che, miscelate assieme, tutto possono e tutto sono. Bi registra questo spazio onirico attraverso il pedinamento di diversi personaggi, incrociandoli in un’impressione di casualità, standogli incollato, tallonandoli come a volerne restituire live le evocazioni, in una diretta il più realistica e immersiva possibile ma al contempo incastonata in un flusso, un andamento, un refrain percettivo che ha i connotati ondivaghi del sogno, la sua erranza liquida e distratta, quel tipo di figure umane che si danno come apparizioni fugaci ed enigmatiche, fantasmi irrisolti e imprecisi.
Della dimensione onirica il viaggio di Chen Sheng ha, poi, la durata all’apparenza inesauribile, l’assenza di stacchi, di risvegli distinti: un pianosequenza di 40 minuti, ardito, inarrestabile, in un movimento senza confini che punta a riprodurre l’assenza di ostacoli della realtà sommersa nella fantasia notturna, del vento senza meta, degli occhi invisibili della natura, delle città e degli oggetti abbandonati.
Lavorando sulle sovrapposizioni tra interpreti e personaggi, Bi spinge all’estremo la labilità fra i due “stati” e l’addensarsi emotivo, l’una nell’altra, di finzione e realtà grazie all’utilizzo di attori non professionisti ed effettivi abitanti della stessa Kaili, di cui i personaggi parlano e nella quale gli interpreti girano, che è cuore e patria di Bi e di Chen Sheng (cui dà corpo lo zio del regista), in un perpetuato avvicinarsi e rifuggire dal presente-passato, sognato e immaginato. Un moto che poi si ripeterà nelll’opera seconda, il meraviglioso Long Day’s Journey into Night, mélo in sospensione che rilancia la carica simbolica e - stavolta scopertamente - cinematografica di Kaili Blues, affermandosi a sua volta manifesto di poetica tra nature morte, trance rivelatrici e uso personalissimo, parlante, sontuoso e oltremodo ambizioso di un dispositivo che, per Bi Gan, è realmente magico.