Black or White
Classico film americano che fa dell’assoluta prevedibilità un punto di forza, mentre tenta di rilanciare con furbizia il redivivo Kevin Costner.
Black or White inizia sfocato.
Il primo volto che appare sullo schermo è quello ormai ruvido di Kevin Costner: risulta subito palese come il film di Mike Binder risponda eminentemente all’esigenza di riportare alla ribalta un ex star. Siamo di fronte a un’operazione pensata, scritta, diretta per il divo, interamente retta sulle solide spalle e sul volto invecchiato di un cowboy ormai stanco. Questa volta non c’è più nessun cavallo da galoppare, nessuna fanciulla da conquistare, eppure il volto iconico di Costner iscrive il film all’interno di una parabola necessariamente, intrinsecamente americana. L’attore interpreta un uomo che, dopo la perdita della moglie, si ritrova a badare da solo alla nipote. Peccato che il padre della bambina, con un passato macchiato di droghe ed eccessi, torni a farsi vivo per chiedere la custodia della figlia.
Chiunque mastichi un po’ di cinema americano può indovinare l’intero film da queste poche righe di sinossi. Struttura diafana in tre atti, ciclo narratologicamente ineccepibile composto di morte e rinascita, discesa e riscatto. Come da programma, si potrebbe dire, storcendo giustamente il naso di fronte all’evidenza di un film progettato a menadito in ogni singolo movimento. E’ qualcosa che abbiamo già visto e continueremo a vedere, ma il punto è proprio questo.
Black or White conserva l’insospettabile (inconsapevole?) audacia di proporsi esattamente per quello che è: un’opera che fa leva sulla propria prevedibilità, che non mischia le carte ma aderisce a classici modelli americani, fino a fare del déjà vu la casa rassicurante in cui abitare.
In un film per famiglie dove tutto ciò che dovrebbe accadere accade, lo spettatore si ritrova cullato all’interno di un nido protetto e immacolato. Ancorato alle sue certezze, viene rinfrancato e tenuto per mano. E naturalmente questo rifugio si rivela rincuorante nella sua estrema familiarità. Accusare dunque Black or White di eccessi retorici, di melassa e buoni sentimenti, sarebbe vero ma completamente inopportuno.
Ogni oggetto filmico più convenzionale deve essere analizzato all’interno del contenitore a cui appartiene. Se quel contenitore è governato da leggi auree, da dettami che ne indicano crismi e traiettorie, si può dire che Black and White li rispetta tutti. Nell’unione di dramma familiare e processo giudiziario, il film di Binder utilizza la sottotraccia del razzismo come consapevole pretesto narrativo (e titolare) per veicolare il tema principale: il riscatto. Il film dice continuamente se stesso, rispettando pedissequamente il modello, non per farlo esplodere, ma per conservarlo (in questo senso si può parlare di cinema conservatore fino al midollo). Non è d’altronde proprio questo che voleva-doveva fare?
Nella sua – digeribile o indigeribile - coerenza il film aderisce con precisione filologica ai dettami del cinema americano col bollino verde.
Se gli si può criticare qualcosa non è nella struttura narrativa, quanto piuttosto nel bozzettismo di alcuni personaggi di contorno, troppo evidenti nel loro ridursi a funzioni narrative per essere davvero credibili. Ma si può sempre rispondere che la funzione narrativa prestabilita è di casa in questo cinema e il giochino critico ricomincia da capo. Per uscire dal cul de sac, la domanda diviene allora terribilmente tecnica: il film funziona all’interno del suo contenitore? Se si seguono gli assunti di base, bisogna riconoscere che Black ore White inizia, prosegue e finisce senza mai annoiare. La formula non è quella di essere più o meno intelligente o seducente come film, ma solo quella di funzionare. Ma sorprendersi di questo sarebbe cosa assai ingenua.