Blair Witch
Una fedele e inutile riproposizione del franchise, un omaggio portato avanti con uguale povertà di idee e incapacità di accedere alla dimensione dell’autenticamente disturbante.
Una volta arrivati al 2016 una videocamera diventata è come un’opinione: ognuno ha la sua, ad estensione naturale del proprio sguardo e movimento nel mondo. Far risorgere il Blair Witch Project oggi allora significa anzitutto creare un found footage fatto di contrappunti e campo/controcampo, sguardi incrociati montati da un regista invisibile e nati dall’intreccio di tante soggettive quanti sono i protagonisti coinvolti. Tutti i personaggi del film, centrali o comprimari che siano, entrano in scena dotati della propria macchina da presa, e il merito è soprattutto di microscopiche videocamere figlie dei defunti google glasses, estensioni digitali che questo terzo capitolo del franchise mette a contatto con un vecchio dispositivo a mini DV.
Questo dialogo tra vecchio e nuovo, alta e bassa definizione, è il principale vettore del Blair Witch di Adam Wingard, sopravvalutato regista dell’indie horror americano come sempre a lavoro su uno script di Simon Barrett. Oltre che di head cam dotate di segnale GPS, il nuovo gruppo di sprovveduti esploratori si arma anche di un drone di ultima generazione, a completare così un armamentario scopico di upgrade digitale che si innesta però all’interno di un testo filmico intrappolato nella ripetizione pressoché assoluta delle precedenti narrazioni del franchise. Quello abitato dalla strega di Blair è un luogo dotato di vita propria, animato da una forza centripeta che in qualche modo sfugge al passare del tempo e impone su di esso la ripetizione della propria mitologia. Mano a mano che i protagonisti finiscono vittima della maledizione e lo spazio/tempo del bosco si trasforma in una trappola circolare, tutti i dispositivi tecnologici falliscono il loro compito, vengono infranti e in qualche modo rigettati dalla volontà del film, che mentre corre verso il medesimo finale si libera di tutti quelli orpelli digitali (che sembrava potessero aggiornarne la natura) per ritornare alla primordialità della bassa definizione, tanto da produrre in chiusura immagini che per pasta e qualità appaiono identiche a quelle del primo film. Discorso teorico sull’immortalità del mito a discapito del progresso tecnologico? Vittoria del rimosso ancestrale sui tentativi digitali di controllare la forza del bosco? Forse, o più probabilmente blanda cornice metalinguistica che a stento tiene unita un’operazione meramente di franchise, una riproposizione stanca e priva di mestiere a cui si tenta di cucire addosso un’intenzionalità di sguardo in realtà fine a sé stessa.
Del resto l’operazione sembrava condannata in partenza, oggi approcciarsi fedelmente ad un film come quello di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez significa cercare di cavare oro da un titolo appartenente a quella rara categoria di opere più importanti che belle, memorabili per il loro impatto linguistico/mediatico/socioculturale ma a conti fatti incapaci di far corrispondere a tale influenza un effettivo valore cinematografico. Blair Witch si rivela allora un film di fedele riproposizione, un omaggio al preteso padre del found footage portato avanti con uguale povertà di idee e incapacità di accedere alla dimensione dell’autenticamente disturbante. Per Wingard l’horror sembra essere soltanto il genere dell’improvviso impatto visivo e sonoro, del salto dalla sedia, dell’urlo nelle orecchie il cui effetto dura a stento un secondo per poi evaporare nella sua inconsistenza. E nulla ha a che vedere questo cinema con l’approccio altrettanto sensoriale e materico di uno come James Wan, alfiere di un cinema ludico e fieramente nostalgico capace però di rendere i suoi film vere case dei giochi, mondi artigianali di semplice, splendido spavento. Blair Witch invece non regala nulla, si diletta con le soluzioni proprie del genere e del franchise ma sembra soddisfarsi da solo, incapace com’è di prendere per mano lo spettatore e condurlo all’interno di uno spazio che vorrebbe essere mitico, autonomamente significante, ma appare in realtà inutile. In quest’ottica poco o nulla significa la vittoria del lo-fi sull’alta definizione, il ritorno che ci offre il film punta verso una casa diroccata e vuota, dove lo spavento arriva soltanto con lo scrosciare dei tuoni e l’imporsi di figure dal fuori campo, un lunapark dozzinale in cui di certo non vale la pena perdersi.