Project X

Freaks and Geeks che incontra l'anarchia acida di Spring Breakers, una brillante riflessione sul reale colto nel suo farsi immagine televisiva, tra hip hop, frenesia chimica e porno amatoriale.

Arte che imita la vita che imita l’arte? Storia vecchia, oggi arte e vita imitano videoclip e porno, musica rap a tutto volume e ragazze in topless che ballano, college fuck fest e pov amatoriali. L’orizzonte è quello di Korine e delle sue spring breakers, ma qui si gioca in casa, qui si prendono 1500 persone e gli si fa tirare giù un tranquillo suburb di Pasadena a colpi di hip hop, frenesia chimica e lanciafiamme, qui si tratta di festeggiare i 17 anni di uno sfigato qualunque e di trasformarlo nel ragazzo più popolare della scuola. Questo è Project X bitches.

Uscito nel 2012, nel pieno successo dei vari Una notte da leoni, il film d’esordio di Nima Nourizadeh potrebbe sembrare soltanto l’ennesima variante sul tema dell’hangover. Vai, festeggia e distruggi, con tanto di Todd Phillips a produrre e regia found footage a mescolare un po’ i generi di riferimento. Tuttavia, nonostante gli ingredienti di sesso, alcol e anarchia acida e pompatissima ci siano tutti, Project X – Una festa che spacca è – tra i film americani dei nuovi anni ’10 – uno dei più attenti e consapevoli nei confronti del contemporaneo, inteso anzitutto come esperienza sinestetica figlia di un’immagine televisiva sempre più penetrante.

Grazie al ricorso del found footage Nourizadeh infatti si diverte a ricreare quel mondo di videoclip da cui professionalmente proviene, ma l’intento finisce per portare il film all’interno di un cortocircuito sensoriale definitivamente meta-linguistico.

I personaggi di Project X si atteggiano come fossero i protagonisti del videoclip più sfrenato e sballato di sempre, bevono e ballano e flirtano imitando il linguaggio video-musicale in cui sono cresciuti e che hanno imparato a guardare con un mai sopito desiderio di emulazione.

Vengono ripresi mentre vivono il sogno e sono perfettamente consapevoli di esserlo, anche e soprattutto perché è esattamente l’atto di venire catturati dalla camera a certificare la loro conquista, l’appartenenza a quel linguaggio di cui finalmente possono essere non più solo spettatori ma anche attori. E’ qui che il ricorso al found footage si fa fondamentale, perché la consapevolezza di essere ripresi garantita dalla narrazione intradiegetica li trasforma a tutti gli effetti in immagini. Project X è la realtà che precipita da uno stato materiale ad un successivo livello iconografico, è il processo di astrazione di una generazione che desidera più di ogni altra cosa farsi immagine, aderire e farsi linguaggio audiovisivo.

Da qui nasce tutto il godimento e l’euforia, dalla coscienza di essere arrivati finalmente in cima all’élite iconografica dell’adolescenza americana, quel pantheon estetico in cui Mtv incontra il voyeurismo del porno amatoriale, l’hip hop la goliardia mitica delle più erotiche feste da college.

Il risultato di questo fondersi di rappresentazioni e modelli fa sì che tutti i protagonisti del film appaiono simulacri residuali di un’immagine che ha ormai divorato la realtà, resti iconografici di una landa apocalittica non molto distante da quella in cui comandano le icone reinventate da Korine in Spring Breakers. La soggettiva in digitale trasforma Project X in un lungo viaggio nel videoclip più cool dell’adolescenza americana, la festa dei sogni da vivere finalmente dentro e fuori lo schermo.

Assodato ciò, colpisce con molta più forza la scelta radicale di porre al centro di questa scalata al potere iconografico un trio di losers, sedicenni sfigati e arrapati che fanno da ponte tra l’anarchia a conti fatti superficiale di Todd Phillips e l’irriverenza ben più consapevole di Judd Apatow. Apatow si, che qui entra in gioco con il suo seminale Freaks and Geeks, tassello determinante della commedia americana di fine anni 90 da cui discendono i protagonisti del film di Nourizadeh. Costa, Thomas e JB altro non sono che le versioni cresciute ma ancora socialmente emarginate del terzetto di geeks raccontato da Apatow e Paul Feig, ragazzi non ancora adolescenti alle prese con il loro primo anno di college.

In Project X sembra così di ritrovare Sam, Neal e Bill, ancora una volta isolati e ai margini di quella galassia scolastica più cool e trasgressiva. Il loro status di sfigati è talmente radicato e oggettivo che persino i genitori del protagonista non possono credere alla popolarità raggiunta da loro figlio. La scena finale del film, in cui il padre di Thomas svela l’invidia mista ad ammirazione per la portata distruttiva dimostrata dal figlio, riassume e rilancia in sé tutto il senso della trilogia de Una notte da leoni. Qui siamo dalle parti di Re per una notte, ancora una volta l’immagine televisiva diventa status, accettazione, gloria, al cui interno però batte il cuore di un’anarchia distruttiva che se lasciata libera potrebbe devastare e radere al suolo il cuore borghese della periferia più suburbana e canonica d’America.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 01/12/2015

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