L’esistenza e la vita spezzano continuamente le persone
in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili.
Dopo la ricorrenza e la rielaborazione collettiva di ieri, anche oggi è un giorno particolare. Possiamo già vederlo e immaginarlo: giornali, pagine di cultura, blog, servizi televisivi, interventi autorevoli, centinaia saranno le voci che in queste 24 ore si soffermeranno sulla figura di David Foster Wallace, ricordandone, più o meno sinceramente, più o meno appropriatamente, la scomparsa avvenuta il 12 settembre di tre anni fa. Un discorso corale che ruoterà sì sull’accertata realtà del suo essere con DeLillo lo scrittore americano più importante e necessario degli ultimi trent’anni, un Proust di fine novecento, un gigante; ma anche e soprattutto una condivisione che assumerà – e assume anche qui or ora – i tratti emotivi di una collettiva elaborazione del lutto. Perché, come sarà lapalissiano per chiunque si sia confrontato con le sue opere di ogni tipo, quello che manca più di tutti è la persona di David, l’amico acuto e rivelatore, il confidente a volte spietato ma sempre straordinariamente umano che abita le righe dei suoi scritti e per osmosi la nostra stessa mente. L’uomo capace con la sua straordinaria intelligenza e sensibilità – e capacità tecnica, impareggiabile – di raccontarci precisamente di noi stessi, dando forma e costruzione architettonica a quello che fino a prima era solo magma fuso, incandescente al solo avvicinarsi della mano. Non si è mai soli sfogliando Wallace, non si può esserlo.
E nella dimensione volutamente – necessariamente – emotiva di questo scritto, ci piace ricordare l’amico scomparso accostandolo per un breve attimo ad un artista nostrano, capace anch’egli di condividersi e donarsi in pari modo al suo lettore, e la cui morte è per ciò vissuta ancora oggi in maniera simile, come la scomparsa di una persona straordinaria incontrata quasi per caso. Parliamo – ovviamente? – di Andrea Pazienza, morto a soli 32 anni nel 1988. Al pari di Wallace Pazienza gettava tutto sé stesso in ciò che scriveva e disegnava, offrendo senza filtri edulcoranti o riscritture tragico-romantiche la sua anima, immolata sull’altare non solo dell’arte ma della condivisione con l’altro. Basti mettere a confronto le opere divenute involontari epitaffi dei due scrittori per rendersi conto dell’analogia, Pompeo e This is Water, parimenti veri, parimenti nati da autopsie autoinflitte. Ecco quindi spiegato come Wallace sia rimasto dentro ogni suo lettore, lasciandolo affamato non tanto di un’ulteriore ultima lettura, quanto di una prima agognata semplice chiacchierata, di un incontro e una conoscenza che dalle righe su carta risalissero per le mani e il cuore dell’amico, che in quelle righe metteva tutto sé stesso lasciandoci comunque desiderosi di avere di più.
A questo punto il quesito drammatico: come ricordare Wallace su questo spazio, essendo lui scrittore e noi rivista di critica cinematografica? Come raccontare il punto di riferimento già comparso e citato in tanti passati articoli senza uscire dal seminato? Ad aiutarci nella soluzione di questi dubbi è giunto John Krasinski, giovane attore americano di cinema e teatro, star televisivo della serie comica The Office, che a sorpresa si è rivelato essere grande amante dello scrittore. Dopo aver recitato per diversi anni i suoi racconti adattandoli a monologhi, Krasinski decise nel 2008 di tentare il salto, reinventarsi regista e trasportare su schermo la raccolta di racconti Brevi interviste con uomini schifosi. Nasce così questo Brief Interviews with Hideous Men, passato al Sundance nel 2008 e selezionato per il Gran Premio della giuria – inutile dire che da noi il film non è arrivato neanche su dvd, fortunatamente copia e sottotitoli sono reperibili altrove.
Fino ad ora Hollywood e il cinema tutto si sono tenuti ben lontani dai lavori di Wallace. Si è vagheggiato in certe sedi di una trasposizione di Infinite Jest, ma fortunatamente il progetto non si è mai concretamente avviato. Del resto, come potrebbe? A parte l’inossidabile legame tra estetica e poetica dei suoi scritti – Wallace è magistrale in questo, basti pensare per la raccolta presa in considerazione allo stile de La persona depressa – una realizzazione cinematografica di quel romanzo richiederebbe capacità tali che il talento necessario messo in campo per gestirle sarebbe tanto grande da rimodellare per forza di cose la natura dell’opera stessa. Il campo leggermente più fattibile su cui lavorare è quindi quello dei racconti, per quanto la raccolta selezionata da Krasinski non sia di certo una scelta facile: contiene sì pagine di monologhi straordinari, ma è frutto anche di una totale decostruzione diegetica. Da un punto di vista strettamente narrativo le interviste del libro sono totalmente episodiche e sconnesse tra loro, prive di contesto e di personaggi descritti da altro se non dalle frasi delle interviste stesse; sono confessioni di uomini viscidi e manipolatori, voci di persone confuse e inadeguate, sfoghi di violenti e frustrati, vittime della propria incapacità di comunicare e capire l’alterità. Un’umanità esistenzialmente manchevole quindi, che emerge con potenza e chiarezza dalle pagine di Wallace e viene amplificata dagli altri racconti, fuori dal modello delle interviste, della raccolta – su tutti Per sempre lassù, piccolo tassello fondamentale della letteratura come solo i lavori di Carver sapevano essere. Se il tutto gira a perfezione sulla carta il film, per giustificare la propria stessa esistenza, doveva necessariamente ampliare gli elementi in gioco. La prima notevole differenza introdotta da Krasinski è il palesamento del personaggio della psichiatra, che qui si chiama Sara, studia all’università e sta preparando un lavoro di antropologia. Per stessa ammissione di Wallace anche nel libro era lei la vera protagonista della raccolta, ma Krasinski prende gli indizi palesi e le varie suggestioni disseminate dallo scrittore per renderla reale, costruendo attorno ad essa una struttura ad incastro con la quale calare diegeticamente nel tessuto filmico diverse delle interviste del libro. Ecco quindi che con questa architettura l’intervista finale – la più alta, incentrata sulla catarsi e lo svelamento del sé – mantiene il proprio ruolo anabatico ma, pur giungendo alla conclusione del film, svolge il compito di giustificazione e spunto di partenza della trama diegetica, in una decostruzione temporale circolare.
Questa ricerca di contestualizzazione narrativa è sicuramente uno degli aspetti più interessanti dell’opera, e porta a diverse soluzioni felici. Oltre a quella finale appena descritta funziona l’intervista trasformata nell’ascolto casuale di Sara in caffetteria, oppure lo sfogo violento dello studente, che palesa l’azzeccato andamento musicale, da improvvisazione jazzistica, dell’intera narrazione. L’errore fondamentale però sarebbe stato limitarsi a questi piccoli accorgimenti spazio-temporali per poi ripresentare l’opera tale e quale, in una struttura teatrale magari basata sul piano sequenza. Oltre al favorire lo jump-cut alle riprese lunghe – aspetto fondamentale per rendere la scissione schizofrenica da cui nasce la raccolta – Krasinski riesce a tradurre alcune interviste in un vero linguaggio cinematografico, dando vita a sequenza intelligenti e ben fatte – quella all’aeroporto o l’esplosione musicale con montaggio alternato di cui sopra – e ad una singola scena di alto livello, quella nel bagno. Detto questo però dobbiamo dire che altre trasposizioni non convincono molto o affatto, come il coro aggiunto dei due camerieri, mentre le interviste riprese in quanto tali appaiono infinitamente più povere dei loro equivalenti cartacei, macchiettistiche e superficiali dove Wallace sapeva essere sgradevolmente umano ed efficace.
In conclusione questo Brief Interviews with Hideous Men, pur nascendo da un’evidente rispetto e amore per la materia originale, conferma la difficoltà sulle trasposizioni di cui sopra; Krasinski è evidentemente un autodidatta mosso dal puro entusiasmo, che se riesce ad incastrare con intelligenza diversi momenti non è comunque in grado di dare all’opera lo spessore che merita. Sarebbe forse servito un David Fincher al massimo della sua forma per rendere il magma di questa raccolta. Il limite peggiore delle interviste di Krasinski è la riduzione del testo a cui molte sono soggette, un taglio che senza aggiunta di spessore cinematografico (a parte poche eccezioni) porta ad un film che viaggia evidentemente col freno a mano tirato. Nonostante tutto però – i tagli e la carenza di idee a confronto con lo spessore della materia originaria – Brief Interviews with Hideous Men vale il tempo della sua visione, salvato in tutte le sue imperfezioni dall’ingenua ma pura volontà di partenza. Un piccolo esempio di come l’influenza di questo scrittore, ne siamo certi, non abbandonerà mai le nostre vite. Ci manchi David.