Warcraft - L'inizio
Ennesimo confronto tra l'umano e il post-umano digitale, ma il blockbuster di Duncan Jones sembra più uno showreel del gioco che un suo adattamento cinematografico
Più che l’ennesimo blockbuster estivo, Warcraft – L’inizio è un’ottima cartina tornasole delle contraddizioni che attraversano oggi il cinema spettacolare americano, sempre più spersonalizzato, ancorato a logiche di brand e dipendente dai mercati esteri, su tutti quello cinese.
Al momento in cui si scrive quello di Duncan Jones è un film giano bifronte, probabile flop negli Stati Uniti ma record d’incassi in Cina, dove viene registrato come miglior debutto straniero di sempre. Più di ogni Star Wars, dell’ultimo Fast & Furious, di qualsiasi cinecomics. Il merito è sicuramente della gigantesca comunità locale di giocatori di World of Warcraft, ma comunque sia è qui che si decidono da adesso le sorti di Hollywood, qui si fanno i conti per stabilire se mantenere o meno in vita una saga. Ogni blockbuster dovrà sempre più confrontarsi con le necessità di quello che sta per diventare il più grande mercato cinematografico del mondo.
In attesa di scoprire come cambierà il linguaggio dello spettacolo americano in relazione a questi nuovi standard, è evidente oggi come l’industria non sia più la stessa di dieci anni fa; Hollywood vive di brand preesistenti e commercialmente già testati – una prassi di certo non nuova ma mai perseguita con tanta diffusione – ma soprattutto non sente più la necessità di plasmare i suoi prodotti attorno a quella che, forse anacronisticamente, chiameremmo visione d’autore. In tal senso la spersonalizzazione delle produzioni Marvel/Disney parla da sola, scevra ormai da ogni identità più specifica a favore piuttosto di una serializzazione frammentata che tratta i film come singoli episodi di un unico prodotto. La matematica (e fredda) calibratura che ha generato Il risveglio della forza nasce dallo stesso algoritmo di pensiero, un’uniformità che sempre più si traduce in un sicuro successo al botteghino. L’eccezione di maggior rilievo sono i Transformers di Michael Bay, una saga quasi anacronistica, in fuga dagli anni ’90 per come riesce a fondere una spettacolarità estrema e fortemente commerciale ad una visione cinematografica specifica, assolutamente personale. A questo meccanismo invece non sfugge per nulla Duncan Jones, che pur accostandosi alla materia con un interesse dichiaratamente personale non riesce ad evadere dalle maglie brandizzate del film, totalmente disinteressato ad essere qualcosa di più di un fan service dedicato ai milioni di videogiocatori sparsi nel mondo.
Divorato da una narrazione giocoforza compressa (l’universo narrativo è enorme e l’Universal ha imposto una durata limite di due ore), Warcraft – L’inizio si rivela un film affrettato, popolato da luoghi e personaggi che vengono annoverati piuttosto che narrati, esposti invece che introdotti. Il mondo di Azeroth si riduce ad uno showreel delle più celebri location del gioco, mentre i protagonisti vengono lanciati nella mischia di una storia accelerata all’interno della quale non riescono a ritagliarsi lo spazio per un’autentica caratterizzazione. Unica eccezione, come sempre più spesso succede in quei film che mettono a confronto l’umano con il post-umano, è la coppia digitale di orchi protagonisti, Durotan e Draka, acqua della vita di un film altrimenti privo di alcun sentimento e senso di pathos. Come nella nuova, fenomenale, saga di Planet of the Apes, anche qui carisma, umanità e caratterizzazione sono assegnati in modo pressoché univoco ai personaggi del mondo digitale, miracoli della motion capture, mentre il dialogo tra razze (compreso quello tra carne e tecnologia) porta avanti uno svogliato discorso di comunione e solidarietà, poco centrato e fondamentalmente rimandato ai capitoli successivi (con il crescere del piccolo Thrall, affidato alle acque come Mosè).
Verboso e derivativo, emulo delle spettacolari cinematics cui ci ha abituato negli anni la Blizzard, Warcraft – L’inizio si rivela ciò che a conti fatti doveva sicuramente essere, un film confezionato per fan, tuttavia tutto questo è lungi dal generare una qualità intrinseca e autonoma.
Al tempo del monopolio fotorealistico di Game of Thrones, affascina trovarsi in un mondo sfacciatamente fantasy, popolato da personaggi con classi e talenti e magie che si muovono in un contesto cartoonesco animato da colori saturi e forme ipertrofizzate. Tuttavia la cornice diventa una gabbia, ammiccamento sterile, mentre il racconto stenta a decollare nell’assenza totale di affabulazione. Il racconto imbastito da Jones è fatalmente privo di seduzione, senza quelle suggestioni che poteva regalare un mondo altro così sfacciatamente ludico, artificiale; tutto viene invece gettato addosso allo spettatore, oggetto di una raffica di riferimenti visivi e testuali che restano ad uso e consumo del giocatore videoludico. In quest’impalcatura così soffocante Duncan Jones semplicemente scompare, risucchiato dalla cornice del brand, all’interno della quale batte debole l’epica e nessuna soluzione visiva riesce davvero ad emozionare.