Flandres

di Bruno Dumont

Al quarto lungometraggio, Bruno Dumont rappresenta una guerra dell'animo procedendo per spostamenti antiprogressivi, per sineddochi, attraverso una svuotata, insensata grammatica della condizione umana che prepara la strada per "Hors Satan".

Flandres- recensione film Dumont

Dopo Twentynine Palms e prima di Hadewijch. Flandres è forse il film – il quarto lungometraggio di Bruno Dumont – che apre la via di non ritorno verso Hors Satan. Gran Prix della Giuria presieduta da Wong Kar-wai a Cannes 2006, è l’incastro impossibile tra l’immagine e il (suo) racconto, o magari – all’opposto – è l’unico aggancio reale, possibile tra i due mondi. È come se il racconto, qui, come e diversamente dalle opere precedenti e future, negasse alla visione una sostanza concretamente performativa; è come se l’immagine fosse un’emanazione sradicata, improvvisa, violenta. Un rapporto, tra le parti, certo, ma sotto il segno di una reciprocità senza filiazioni. Del resto, una volta, intervistato dalla rivista Close up, Dumont ha detto: «Il mio cinema è come un vaccino, un veleno. Io lo inietto così lo spettatore impara a difendersi». Per poi proseguire più avanti: «In Flandres io rappresento la guerra che abbiamo dentro di noi, e penso che siano più rappresentative quelle immagini di ciò che mostra la televisione. I servizi dei telegiornali mostrano, il cinema rappresenta». Ma è proprio la rappresentazione dumontiana a scardinare corrispondenze, biunivocità, riferimenti. Basterebbe già la dissonanza tra il titolo totalizzante e la dislocazione narrativa, geografica, sensoriale, del film tra le Fiandre francesi del regista – e soprattutto del suo cinema, dei suoi protagonisti – e un conflitto bellico in un luogo lontano, probabilmente un Medio Oriente non meglio identificato. 

André Demester (Samuel Boidin) è un giovane di campagna come Barbe (Adélaïde Leroux), la sua vicina, di cui è innamorato senza saperlo confessare, ricambiato in altro modo da lei. Le parole sono poche, il sesso si consuma rapido e meccanico sull’erba, sul terreno. Un giorno arriva un altro ragazzo che attira le attenzioni di Barbe. Ben presto, però, i due ragazzi, e un altro amico di André, partono per la guerra. Ed è da qui, da questo deserto che subentra a quello americano di Twentynine Palms, che Flandres produce un altro grande spazio vuoto della visione, della conoscenza, una torsione lampante e al tempo stesso ambigua, essenziale ed estrema del senso, del tempo, della verità, tra scarto e sovrapposizione, tra luogo e luogo, tra André e Barbe, scansando sempre una tematizzazione esemplare, rilevante, paradigmatica delle cose, delle identità, ma procedendo per spostamenti antiprogressivi, per sineddochi, attraverso una svuotata, insensata grammatica della condizione umana. Flandres sembra situarsi proprio nell’impenetrabile varco di contatto tra l’esaurimento nervoso di Barbe e la violenza perpetrata e subita da André e dagli altri soldati. Si muovono a cavallo nel deserto, violentano, uccidono, vengono uccisi. Bambini freddati, soldati a cui viene mozzato il pene. Tutto potrebbe essere perfino una visione di Barbe, un sogno, un incubo, una veggenza, una conoscenza superiore, mentre viene a mancare un tempo preciso, palpabile, effettivo degli eventi, in un realismo dumontiano che non è mai realismo, in un film di guerra senza genere, in un’asimmetrica, meccanica e naturale reciprocità tra gesto e materia, luogo e personaggio, vita e morte. Simultaneità del tempo, dello sguardo, una (anti)tensione invisibile, rigorosamente, disperatamente spirituale.

Flandres non ha tragedia, è una teoria del tragico, non ha desiderio ma corpi. Qui la questione sono i confini di uno sguardo che si prende in carico il reale. Ma il regista di Bailleul sta in una stranissima, probabilmente unica, impenetrabile dimensione tra l’osservazione estrema di questo reale e la sua vampirizzazione. E forse il solo Dumont davvero “vampiresco” è quello comico, grottesco, iperbolico fino all’apice di Ma Loute. La trascendenza è negli occhi di chi guarda. Sguardo d’autore? Sguardo spettatoriale? O sono solo gli occhi di Barbe che vedono, come nella scena di chiusura con André tornato dalla guerra? Potrebbe essere una rimodulazione, un ritorno all’ending tra Pharaon e Domino de L’umanità. Il contatto, il pianto del ragazzo, l’amore che ora sa dire. Ma forse, più di tutto, la fine di Flandres è l’inizio di un altro Dumont.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 25/10/2020
Francia 2006
Regia: Bruno Dumont
Durata: 91 minuti

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