Hadewijch
Ruvido e minimalista, Hadewijch non è propriamente un film sulla fede, non è indagine sociale o fotografia storico-politica del reale, ma piuttosto è la rappresentazione di un sentimento bruciante, assoluto e imprescindibile
Hadewijch, poetessa e mistica fiamminga vissuta tra il XII e il XIII secolo, diventa nel film di Bruno Dumont una tormentata ragazzina figlia di un diplomatico parigino in preda a una dolorosa crisi religiosa. In convento, la madre superiora considera le privazioni che la ragazza si autoimpone frutto di un atteggiamento sdegnosamente ribellistico (un peccato di orgoglio?) e finisce per allontanarla. Smarrita in una metropoli plumbea e respingente, stretta tra il vuoto opprimente del suo appartamento lussuoso e barocco e gli spazi asettici e squallidi della periferia, la giovane incontra casualmente i fratelli Yassine e Nassir e si lascia condurre su una nuova, pericolosa strada – quella della lotta armata – per arrivare a un Dio che, pure chiamato con un altro nome, è in fondo sempre fatto della stessa sostanza. Un dio che è presenza in assenza, come le verrà spiegato durante un incontro di riflessione sull’Islam, un dio che non può mostrarsi e proprio per questo mantiene accesa in lei una sete che è fiamma, un desiderio intrinsecamente inestinguibile.
Come L’umanità - nonostante il brutale omicidio in apertura e il protagonista poliziotto - non è un thriller né un noir, Hadewijch non è un film sull’estremismo religioso, non è indagine sociale, e nemmeno è fotografia storico-politica del reale. In fondo, non è neppure esattamente un film sulla fede in quanto tale, o sulla religione come sentire o come modus pensandi. Dumont, che nella prima parte del suo percorso cinematografico pratica un cinema ruvidissimo, incredibilmente sporco e scarno, indifferente a qualunque tensione narrativa, ama disattendere e frustrare le aspettative dello spettatore: lo fa nella sostanza del discorso – sempre rarefatto, evocativo, suggerito, mai dichiarato - e nella grammatica del linguaggio, ora eludendo un controcampo, ora negando un fuori campo dove è diretto lo sguardo dell’attore (verso chi, verso cosa?).
L’inessenziale, come sempre, scompare, resta solo una giovane (non ancora) donna divorata da uno struggimento tormentoso, soffocante e senza nome. «Mi manca», dirà all’amico Nassir che, fedele a un Dio che non può farsi immagine né carne, non patisce come lei l’invisibilità misteriosa del divino, ma legge proprio in essa il senso della fede.
Ma Dumont, sebbene già professore di filosofia, non ama la speculazione teoretica, e se chiama in causa certi concetti - Al-Ghaib, il non visibile, l’assenza, il mistero – è per dirci che in un certo senso anche la stessa Hadewijch-Céline non è che segno, rappresentazione, sentimento fatto immagine: per questo non hanno importanza la storia, il luogo, le coordinate spazio-temporali insomma, per questo tutto si riduce al manifestarsi di un’afflizione amorosa, pianto sordo e inascoltato di fronte a una grata, preghiera sussurrata, autoannullamento fino alla dissoluzione, in un finale in cui la messa in scena ritrova luce e colore – quasi negati fino a quel momento – e il Salvatore della protagonista, colui che la fa “rinascere” dall’acqua (elemento sui cui potremmo stratificare simboli all’infinito) sarà un operaio di passaggio che ha il volto del futuro protagonista di Hors Satan, colui che scaccerà il male.
Oggetto scivoloso e sfuggente, pienamente Dumontiano nella sua asprezza austera, nel suo rifiuto aprioristico della “bella immagine” – quasi l’estetica pauperistica dovesse qui allinearsi eticamente alla protagonista, per la quale la mortificazione è un’impellenza morale – Hadewijch è una ferita aperta, un interrogativo sospeso, un grido d’amore.