Ragazze interrotte
Mangold affronta la malattia mentale traducendola nell'idea di uno spazio chiuso, novella caverna platonica, ove la guarigione dello spirito rappresenta la scelta di un consapevole ingresso nel mondo.
C’è una scena in Ragazze interrotte che spiega perfettamente sia il titolo che il senso del film: solo che è stata tagliata al montaggio finale (ma si può vedere su YouTube). La ragazza interrotta originale è quella di un quadro di Vermeer che la protagonista (Winona Ryder), vede con grande turbamento in un museo. La fanciulla si volge verso lo spettatore mentre suona, come distratta dall’arrivo di un visitatore inatteso, e si cristallizza in quel intermezzo che a Susanna pare eco del suo periodo di pazzia giovanile, «un momento reso immobile, per tutti gli altri momenti, qualsiasi cosa fossero o avrebbero potuto essere». Così scriveva la vera Susanna Keynes, nelle proprie memorie da cui nel 1999 James Mangold traeva il suo film erroneamente ricordato dai più solo per l’Oscar come Miglior Attrice non Protagonista ad Angelina Jolie. Eppure Ragazze interrotte è stata soprattutto un’opera capace, pur con i suoi difetti, di rendere la complessità della malattia mentale e della sua concezione entro una società “normale” esponendo una pluralità di punti di vista senza prediligerne nessuno.
Susanna appare inizialmente niente più che una persona confusa, forse viziata dalla vita troppo facile, una ragazza pigra che si diverte ad andare fuori di testa, come la definirà in un momento di rabbia l’infermiera Valery (Whoopi Goodberg). Pertanto i genitori non trovano altra soluzione se non spedirla in un ospedale psichiatrico dove incontrerà alcune ragazze, tutte in apparenza davvero folli, soprattutto la carismatica Lisa (Angelina Jolie), vero e proprio capogruppo del reparto, sociopatica con la battuta pronta sempre incline a reiterate fughe con annesso recupero e ulteriore ricovero coatto. Eppure, siamo nel 1968, in America il movimento underground, gli hippie e la ribellione giovanile concorrono a rimettere in discussione i vecchi principi morali, ciò che era giusto e normale una volta non lo è più; e allora perché non dovrebbe essere Susanna una vittima, in quanto punita per aver rifiutato il consueto percorso esistenziale università-matrimonio-figli che aveva contraddistinto la vita di donne come sua madre? Sarebbe facile pensarlo, credere che lei e le sue compagne di ospedale siano vittime, come è facile credere che siano abili manipolatrici, oppure che la normalità non esista o che effettivamente siano tutte pazze.
L’intelligenza di Mangold sta nel non dare una risposta precisa, ma nel riconoscere la medesima percentuale di follia nelle pazienti come nel mondo che le ammala – nel film c’è sempre, esplicito o sottaciuto, un rapporto conflittuale o spezzato con i genitori come con l’autorità in generale – perché ciò che gli sta a cuore non è imputare le colpe quanto trovare una metafora visiva efficace per rendere il disagio mentale e strutturare tutta la vicenda secondo questo concetto, che è quello della stanza chiusa. Susanna è vista la maggior parte del tempo entro una stanza, e d’altra parte la sua è una storia di reclusione che non è solo quella concreta dell’ospedale ma quella inconsapevole di una chiusura esistenziale a ciò che è fuori – il mondo, le relazioni, la responsabilità della propria vita. Il suo ricovero ospedaliero è solo la conseguenza finale di un chiudersi che è andare in un altro luogo, un’altra dimensione della mente. In alcuni contesti è un processo caro agli artisti (e difatti quando Susanna dirà al tassista di dover andare all’ospedale perché vede delle cose, la risposta sarà «allora dovrebbero rinchiudere anche John Lennon!») ma nel caso della protagonista diviene una scelta precisa per rifiutare tutto ciò che sta fuori. Questo vale per lei come gli altri personaggi: da Lisa che cerca di perpetuare la propria malattia mentale per poter sempre tornare dentro, a Daisy che esce fuori dall’ospedale solo per rintanarsi nella casetta acquistata dal padre stupratore; per non dimenticare poi il volto deturpato di Polly che le aliena ogni relazione amorosa, le bugie patologiche di Georgina o l’anoressia clinica di Janet che cerca letteralmente di scomparire dal mondo.
Mangold accompagna le sue protagoniste lungo questo cammino ininterrotto entro un dedalo di stanze, porte aperte e chiuse, ove ogni fuoriuscita all’aria aperta, per quanto speranzosa, finisce male (ci si addormenta, si litiga, si scappa via) in quanto priva di quel presupposto necessario per rendere l’entrata nel mondo un atto consapevole. Uscire fuori significa anche lasciar uscire fuori ciò che si è tenuti dentro, e così Susanna, non ancora pronta, rifiuta la fuga col proprio ragazzo venuto a prenderla (Jared Leto) e ritorna in ospedale dopo essere scappata con Lisa. Solo quando accetta di parlare, di esprimersi nella terapia, può deliberare il proprio stare al mondo tramite il violento confronto finale con Lisa, demistificando tutte le sue argomentazioni orgogliose e violente sulla malattia e l’alienazione come uniche esperienze di verità. Il disturbo borderline che le viene diagnosticato rappresenta infatti questa linea di delimitazione tra la normalità e la follia, la realtà e l’universo parallelo della malattia, sul cui confine la protagonista ondeggia indecisa su dove orientarsi, che non è tanto la questione dell’essere noi e il mondo più o meno folli, quanto se stare al mondo o andarsene, metaforicamente (l’alienazione mentale) o nel concreto (il suicidio). Se è certo che veniamo fisicamente al mondo espulsi dal grembo materno, è anche evidente che a questo parto deve sempre accompagnarsi una nascita spirituale, come esseri indipendenti e autonomi, che spesso si concretizza (se si concretizza mai) molti anni dopo la nostra comparsa. Dopo la lunga e dolorosa gestazione mentale avvenuta entro il chiuso dell’ospedale, Susanna finalmente si partorisce e viene al mondo: ed è lì, con la fine del film di Mangold, che la sua vita inizia davvero.