Tár
Nel terzo film di Todd Field, l'atto di maturità del cinema americano nella propria messa in discussione.
Un film come Tár lo si aspettava dal 2017, ma è significativo che abbia visto la luce solo oggi. In un lustro nel quale pure sembra non si sia fatto altro che parlare di MeToo, il cinema americano è sempre parso restio a raccontare il più decisivo ribaltamento valoriale della sua storia recente. Banalizzato nel sensazionalismo della caccia all'orco, era inevitabile si giungesse all'assuefazione e alla noia prima che qualunque riflessione importante potesse nascerne, e così è stato. Il mancato appoggio (anzitutto sistemico) al recente She Said di Maria Schrader tradisce forse una sopraggiunta insofferenza nei confronti degli aspetti più superficialmente autocelebrativi della vicenda. Oggi che lo slancio di partenza sembra essere approdato alla fase della storicizzazione critica, quello di Todd Field rappresenta forse il primo ragionamento autenticamente filmico sulle reali implicazioni del fenomeno: non più indignazione ed eroismo individuali, ma angoscioso processo al cinema in sé come macchina del consenso universale.
In termini quasi freudiani, Tár suggerisce come il trauma-Weinstein possa essere affrontato solamente attuando uno spostamento delle sue componenti più disturbanti su un piano alternativo a quello hollywoodiano. Ci chiede così di credere a un processo di cancellazione "all'americana" nel quale i soliti attori non abbiano posto: slegata dal suo humus pop, la sua tragedia sociale vada dunque a compiersi nell'accademico ambiente della sinfonica berlinese.
Trovando una funzionale metafora nella figura di una direttrice d'orchestra, Field esplicita così la linearità tra l'atto di dirigere (da una posizione centrale, anche in termini spaziali) un processo creativo, e la fabbricazione di un senso comune. La storia di Lydia Tàr è, fin dall'inizio, mediata dalla celebrazione pubblica: presentata su un palco, la sua vita è una sfilza di premi, achivements e riconoscimenti. Nonostante il titolo da biopic non sapremo mai nulla di lei, arrivando a dubitarne persino il nome. Con un perfetto gesto della mano Lydia crea se stessa, e il film che l'avvolge è emanazione diretta del proprio personaggio: un mondo da lei costruito a sua immagine, dai movimenti ai cromatismi, découpge di alta cultura mitteleuropea garanzia di legittimità. La stessa dea Blanchett è posta da Field al centro di un universo di riferimenti cinematografici "alti": una Petra Von Kant americana a passeggio tra Fassbinder e Polanski, che cita Visconti, sfiora Ozon, convive con Petzold nella grande Nina Hoss e flirta con Sciamma in Noémie Merlant. Algida armonia ove gli elementi di disturbo (rumore bianco, ticchettii, giacchette rosse brutte, animali rabbiosi o misteriosi stalker che farebbero meglio a tacere) non possono aver posto.
Riavvolgendo cinque anni di cronaca, Tár rimette lo spettatore di fronte all'atto traumatico della scoperta. Come la protagonista sa imporre il proprio sguardo (a colleghi, studenti, assistenti, persino familiari), così Field per novanta minuti manipola il pubblico a lottare contro l'evidenza, accettando passivamente la dubbia verità di Lydia. Alla sua versione è impossibile non credere: è la donna più bella e cool del mondo, la più sveglia, la più colta, unica mente pensante in una società di robot balbettanti. La disinfettata Berlino della Filarmonica è invasa dalle sinistre ombre di Possession e Suspiria, l'orrenda realtà è lì, ma lo spettatore la rifiuta: continuiamo a credere alla nostra eroina, a cosa i luoghi comuni dell'intrattenimento ci dicono di pensare. Fino al primo piano delle email, prova incriminante del processo filmico-giudiziario in atto, a inquadrare l'oscuro fuori-campo del film ed evidenziarne l'arbitrarietà.
Tár è lezione di maturità cinematografica nel suo mostrare i meccanismi del potere in atto nella creazione del senso comune. Consapevole di muoversi su un campo minato, Field sceglie però di prestarsi comunque al gioco metatestuale dei rimandi al "dibattito" social. Di questa tendenza a inseguire il punto di vista giusto e definitivo sulla questione sono figlie le scene più artefatte, in cui il film si confronta dialetticamente con i propri sottotesti (il classico "l'arte o l'artista?") in una pioggia di aforismi forse pensati più per essere letti che declamati. E quando gioca a fare a pezzi la fragile ideologia identitaria di ragazzini tiktokers (che vantano di non aver studiato Bach "in quanto non-binary"), dati in pasto a Lydia per il godimento dello spettatore colto, si ha più che altro la sensazione di scorrere un thread di tweet avvelenati o un think piece recitato – difetto peraltro condiviso con molto cinema recente chiamato al confronto con i grandi temi del contemporaneo.
Si arriva dunque a tirare le file in un finale scombinato, ma soprattutto ideologicamente indeciso. Come il recente Babylon, film più simile di quanto non appaia, anche Tár non è convinto della posizione da prendere nel momento in cui la propria analisi si sposti dal Potere in senso assoluto allo spettacolo in senso stretto. I tragici eroi di Chazelle saranno cancellati, loro si, dall'avvento dell'Hays Code, che sulla loro rimozione violenta fonderà la gloria di Hollywood e la psiche della Nazione intera. Lydia Tàr pagherà quanto meritato, al costo però di condannarne l'arte all'oblio. Lo spettacolo detta le narrazioni che distruggono vite e costruiscono imperi, crea miti e li uccide: a volte è giusto e inutile, a volte è ingiusto ma necessario. Basta la grandezza delle sue opere a giustificarlo? Non c'è risposta, solo un interrogarsi senza fine. L'America che parla di sé, come al solito, e il cinema che parla di sé, come sempre.