Sto pensando di finirla qui
Kaufman racconta un disturbante viaggio metaforico nel cervello di una mente frantumata in egual misura dal desiderio di rivalsa e da un senso opprimente di fallimento
Se c’è una chiave di lettura utile per penetrare nell’enigma di Sto pensando di finirla qui (I'm Thinking of Ending Things) sta tutta nel lavoro di sceneggiatore dello stesso Charlie Kaufman, qui alla sua terza regia. La sua scrittura cinematografica si realizza quasi esclusivamente negli spazi evanescenti della mente umana, materializzata in architetture e paesaggi della memoria (Eternal sunshine of the spotless mind), posti apparentemente razionali che perdono pian piano ogni coerenza spazio-temporale (Syneddoche, New York). D’altra parte noi esseri umani non possiamo che rappresentarci mentalmente la coscienza e la memoria come luoghi da visitare fatti di infinite stanze, alcune aperte e altre chiuse a chiave, alternate a panorami fantastici in una complessa costruzione ripetutamente allestita e poi ridotta in macerie dalla nostra psiche. In un certo senso sembra sempre più facile tornare alla dimensione del passato, perché trattasi di architetture già conosciute, semplici da riallestire col pensiero. Eppure, come chiunque abbia intrapreso una terapia psicoanalitica saprà, queste possono rivelarsi spazi sfuggenti e incerti che colgono di sorpresa e terrore.
Tratto dall’omonimo romanzo di Iain Reid, il film distribuito da Netflix si apre su una nota romantica: la prima visita di Lucy ai genitori di Jake, ragazzo che frequenta da qualche settimana. È un evento importante che segnala un passo decisivo nella loro storia, eppure la ragazza non smette di pensare che in realtà dovrebbero proprio farla finita. Non sa spiegarsi perché, dato che Jack le piace molto, tuttavia quel pensiero le torna di continuo in mente. L’arrivo nella casa dei genitori di Jack, una fattoria sperduta in campagna, dà il via a una serie di episodi al limite tra il l’imbarazzo e il disagio, in un’atmosfera straniante. La casa è anomala, rivela pian piano dettagli confusamente noti e luoghi proibiti, mentre racconti di storie familiari si intrecciano col pensiero interiore di Lucy che diviene una sorta di spettatrice della persona di Jake, e al tempo stesso riceve al cellulare continue chiamate da sé stessa e messaggi ossessivi di un uomo sconosciuto.
La confusione narrativa di Sto pensando di finirla qui si chiarisce nel momento in cui la si rapporta al lavorio di voci dentro il cervello, macchina narrante che produce idee e instaura una discussione con sé stessa. Come se citasse a memoria, Lucy elabora discorsi che sembrano quasi scritti tanto sono ben espressi, e Jack le fa eco. Continui riavvicinamenti affettuosi non eliminano un senso di timore verso una possibilità di catastrofe, una decisione finale che sottintende un taglio netto. Ma con cosa? Si introducono immagini del futuro e del passato, i personaggi cambiano di età, i discorsi riecheggiano l’antica possibilità di Jack di fare grandi cose nella sua vita, grazie a un’intelligenza superiore accompagnata da una timidezza patologica. Di viaggio in viaggio dalla fattoria al liceo di Jack, immersi in una tempesta di neve che sembra annichilire ogni sfondo sociale, la coppia è sola come lo sono i pensieri di una mente smarrita, che lenisce la solitudine con letture e riflessioni, immagini fantastiche prese dalla realtà: un film romantico di Robert Zemeckis, un ballo appassionato, un finale alla A Beautiful Mind traslato in musical.
Kaufman riesce a descrivere lo spazio psichico di una persona che pur frantumata in voci dentro la propria testa è sempre sé stessa. Ironicamente, l’attività mentale che prevede l’elaborazione di un pensiero del tutto slegato dalla realtà in un racconto auto referenziato è detta in gergo ‘farsi un film’ ed è proprio quello che Jack sta facendo. In virtù del suo straordinario bisogno emotivo, pretende uno spettatore – si vedano i frequenti passaggi di camera da Jack e Lucy – ma vuole essere visto in sostanza da sé stesso, e in quell’atto accettarsi e assolversi da tutti i propri fallimenti. Lucy, figura senza memoria del proprio passato, che vagamente si occupa con talento di fisica, scrive poesie e dipinge, rafforza l’autostima del ragazzo perché ne riconosce il valore soltanto mostrando di voler stare con lui. Ciò nonostante la voce di Lucy si ribella slegandosi dalla narrazione di Jack, cresce di indipendenza, come una mente in conflitto con sé stessa.
E allora forse è davvero il caso di farla finita qui; finirla con le aspettative deluse, i rimpianti, i sogni fantastici di finali perfetti, in una sofferta accettazione della propria esistenza, per elaborare un happy ending che è tale solo per il sollievo di una piena riappacificazione con la realtà, una resa definitiva alla vita e della vita. Una mente contorta è fatta di pensieri intricati, e il film riproduce perfettamente questa complessa struttura cerebrale, per cui, lungi dal presentarsi in maniera univoca, Sto pensando di finirla qui ha la precisa esigenza di adattarsi a questo sistema, farsi incoerente, verboso e discontinuo, svilupparsi per più livelli di significato. Chi è abituato a dialoghi tormentati con la propria testa si troverà perfettamente a suo agio con lo stile di Kaufman: con l’aggiuntivo sollievo, poi, di passare due ore entro un cervello che, per una volta, non è il suo.