Die innere Sicherheit
Al suo esordio per il cinema Petzold dimostra già la capacità di tradurre in linguaggio drammatico intelligenti riflessioni sul contemporaneo.
Interessanti questioni di titoli e traduzioni per avvicinarsi al testo. Il primo lungometraggio per il cinema di Christian Petzold si intitola in lingua originale tedesca Die innere Sicherheit. L’espressione in italiano è traducibile letteralmente in due modi: “la sicurezza interna” o “la sicurezza interiore”. Il sottile gioco di parole tedesco è più o meno ripreso nella perspicace traduzione francese - Controle d’identitè - e in quella inglese, più scoperta - The State I Am In. Cosa costringe queste interpretazioni, distanziate tra loro da lievi slittamenti di senso ma tutte evidentemente concentrate su uno sforzo di sintesi particolare, al gioco di parola, alla figura aperta a più significati, in definitiva all’ambivalenza referenziale? Le immagini del film stesso, per come sono pensate, costruite, per quello che raccontano e per come lo raccontano: la storia della figlia adolescente di due ex terroristi, costretti a nascondersi in attesa di una fuga verso il Portogallo, è la storia di una minaccia alla sicurezza interna di un paese o è la storia di una sicurezza interiore, psicologica, minacciata da una situazione compromettente? È la storia della fuga da un controllo di un’identità tra nascondigli obbligati e traduzioni continue (essendo la ragazza abile traduttrice), o la storia di un’identità fuori controllo perché in via di definizione? O ancora, la storia dell’incidenza psicologica dei cambiamenti politici e geografici di un corpo? L’immagine, risultato che sta a metà tra queste opzioni ed è il corpo di queste tensioni, sembra sostare nell’indefinitezza.
Ma forse non è indefinitezza la parola giusta per questa rappresentazione che mortifica gli sviluppi della trama fino a contrarla in pretesto, cioè condizione di partenza proiettata in altri discorsi, corpo da muovere verso altre virtualità. Più che la figura dell’indefinito al regista interessa la figura del non ancora definito, di ciò che è in corso, di ciò che è in transito verso una definizione, verso un significato. Non gli interessa la storia di due criminali che sono costretti a fuggire perché sono due personaggi incastrati nel meccanismo del thriller e della suspense, dell’indefinito, ma la storia di questi due criminali come figure che non possiedono definizione, costrette a sostare in non luoghi, a vivere come fantasmi (e questo è non a caso il film che apre la Trilogia dei Fantasmi) intrappolati nel qui e ora di uno spazio che sta a metà tra l’irreversibilità del passato e l’irraggiungibilità del futuro. La figura del non luogo è forse quella che più definisce il film, la categoria della riflessione sul contemporaneo che più influenza il cinema del regista: il termine per Marc Augé non identifica, come potrebbe sembrare, spazi antropologici che non sono luoghi, ma luoghi in opposizione a quelli antropologici, luoghi senza identità, senza storia, senza relazione; i luoghi come aeroporti o porti marittimi, stazioni o centri commerciali, svincoli autostradali, alberghi, campi di accoglienza per profughi, sono gli spazi in cui Petzold proietta l’azione del dramma, parentesi in cui si può solo sostare, senza radicarsi, solo attraversare, senza davvero pensare, solo transitare. Il non luogo è un’astrazione (composta soprattutto da segni direzionali, ordini non valoriali ma al massimo semaforici) in cui i passeggeri sono interpreti en travesti che stanno sempre nel tra, come nell’oscillazione terminologica di un termine durante una traduzione.
Il film non gestisce queste astrazioni, queste categorie riflessive che raccontano il contemporaneo da vicino, mettendole a tesi in maniera fredda e calcolata, ma le incarna in un discorso di sensibilità: il film (e il cinema di Petzold tutto, assieme al suo ex insegnante Harub Farocki) non è guidato da un principio astrattivo che rilegge le storie in virtù di una dimostrazione, bensì da un principio estrattivo, che essenzializza, coglie il punctum sofferto del contemporaneo, un frammento volante che per un momento riflette l’origine del boato che l’ha mandato in aria, e poi si concreta, ricomposto, in un volto, in una sensazione, in una situazione.
Ci sono molti segni testuali di questa ricomposizione o messa in situazione lungo tutto il film – su tutti la differenza tra la mappatura della rapina finale e la rapina vera e propria – ma il segno principale è il volto di Jeanne, la ragazza protagonista. È coerente che dei tre personaggi sia lei la protagonista del film, sia suo il punto di vista che porta dentro al discorso: che cos’è l’adolescenza se non desiderio di definizione e di senso di fronte a una crisi che mette in dubbio le certezze sulla propria identità? È intorno alla figura adolescenziale (interpretata da Julia Hummer) che ruota tutto il campo simbolico ed è proprio nella sintesi dei suoi tratti, nello studio dei suoi movimenti, nell’attenzione per le sue reazioni, che il discorso concettuale e astratto assume un corpo, un’urgenza. La crisi antropologica dei corpi in via di disintegrazione identitaria – corpi spettrali anche nelle tracce delle videocamere elettroniche che ne certificano lo sfarfallio – è vissuta come una condanna incomprensibile da un corpo che al contrario degli altri corpi - sempre più decisi a scomparire per sopravvivere, a diventare indefiniti indefinibili – vuole esistere, restare, vuole vivere e provare sentimenti. Il dramma di un corpo che inizia a essere sentito come problematico e non vuole essere cancellato si agita in un ordito psicologico che vede l’usuale confronto genitore-adolescente cedere il passo a un più interessante scontro in cui la posta è il desiderio di esistere e confermarsi, fino a ribaltamenti che mettono in discussione gli schieramenti e lasciano la vicenda sul bordo di un problema insoluto. Ed è proprio il finale rotto, concentrato su volto di ragazza che in un colpo di vento si fa donna presente nel proprio corpo vivente e non solo sopravvissuto di fronte alla tragedia, a essere immagine già matura, sintesi dei profondi brani teorici trascritti in una grafia apparentemente molto leggibile.
Nel volto di Jeanne c’è già la prova di tutti i prossimi volti spaccati nell’ambivalenza referenziale dei discorsi di Petzold, i volti in crisi e in cerca di definizione, i volti in transito nella morte, i volti sofferenti ma vivi, perché stanno in piedi nel rumore confuso del mondo che sbiadisce.