Il segreto del suo volto
Tra film storico, dramma e noir Petzold mette in scena una riflessione sull'identità in senso sia privato che sociale
Film storico tenacemente ancorato ai canoni del genere, drammatico racconto d’amore negato, noir che insinua ed effonde un’inquietudine sottile e persistente, ma soprattutto lancinante riflessione sulla questione identitaria tanto in senso privato ed emotivo quanto in senso collettivo e sociale: all’incrocio di queste coordinate sta il terz’ultimo film del tedesco Christian Petzold, appartenente alla fase in cui ai toni lividi e quasi dimessi degli esordi il regista preferisce già una fotografia più levigata e calda, a esaltare l’espressività intensa del volto della sua attrice prediletta, Nina Hoss. Se ne La scelta di Barbara (2012) la Hoss era una dottoressa tormentata dalla Stasi ai tempi della DDR, qui, con un altro vertiginoso balzo all’indietro tra i fantasmi di un passato sempre e ancora da elaborare, interpreta Nelly, una donna ebrea sopravvissuta al campo di sterminio.
La vediamo, in apertura, arrivare alla frontiera in piena notte, terrorizzata, con il viso e la testa coperti di bende sporche di sangue. Un soldato, torcia alla mano, le intima impietoso di scoprire il volto. E il senso del discorso è già tutto qui, in questa semplice metafora: i torturatori nazisti, e in senso lato la deriva del sentire umano nel disumano, devastandole il viso hanno cancellato la sua identità. Non solo il passato e la storia personale, quanto – ancora peggio – ogni potenziale futuro: perché nessuno vuole ricordare, nessuno vuole vedere, e un reduce segnato nel corpo e nella mente è, per la sua sola presenza al mondo, monito e atto d’accusa, in un presente fatto di macerie in cui le vicende di carnefici e vittime sono fin troppo strettamente legate.
Non a caso, il chirurgo che in seguito ricostruisce il viso di Nelly le chiede a quale attrice desideri assomigliare: ecco dunque la necessità, tutta post-bellica, radicata in un sentire collettivo e condiviso, di dimenticare per rinascere dalle ceneri (il titolo originale del film è Phoenix). Ma la donna vorrebbe somigliare soltanto a se stessa, anzitutto per ritrovare Johnny, quel marito che tuttavia – sembrerebbe - l’ha denunciata ai nazisti. L’amica Lene, anche lei ebrea, l’ammonisce per proteggerla, e in luogo di un assurdo perdono - in cui vede una masochistica resa - le prospetta una nuova vita in Israele. Ma Nelly non cede: ritrova Johnny, ora tuttofare in un nightclub, che però, guardando il suo nuovo volto, la scambia per un’estranea. Un’estranea che tuttavia somiglia sorprendentemente alla moglie che crede defunta. Un’estranea da ingaggiare per interpretare proprio quella moglie, dimenticata (?) e tradita, ma della quale ora è cruciale recuperare la cospicua eredità.
In quello che sembra un gioco al massacro – per Nelly - e insieme un gioco delle parti, o semplicemente un pretesto narrativo dal sapore hitchcockiano per instillare suspense nel racconto, il regista inscrive di fatto, con una sineddoche, la difficoltà o anche il rifiuto di una intera nazione di affrontare ed elaborare il senso di colpa.
C’è un piano, più prosaico, che è quello dei nessi causa-effetto della narrazione, in cui a ben guardare sembra quasi incredibile che a Johnny servano davvero una canzone e un tatuaggio sul braccio per riconoscere la donna che ha di fronte. Ma siamo pur sempre nei territori di Petzold, dove sogno e fantasticheria possono insinuarsi in un reale che fino a un istante prima sembrava inattaccabile: in Yella (2007) tutto ciò che accade è soltanto immaginato, ne La donna dello scrittore (2018) i nazisti invadono la Francia con quasi un secolo di ritardo, mentre Undine (2020) si chiude con la soggettiva a pelo d’acqua di una donna morta, o forse di una ninfa o una sirena.
Ma c’è anche un secondo piano, che esige, se vogliamo, uno sguardo più attento, che penetri oltre la superficie delle cose. Per cui ogni personaggio trascende se stesso per significare, in un gioco di sintesi e simboli, qualcosa di più vasto e astratto. Se Johnny, che non vede e non riconosce, incarna il tentativo di negazione, neppure tanto inconscio, di una intera società che in un dato momento storico ha chiuso gli occhi per non guardare il male compiuto, Lene è la (necessaria) rabbia che per autoaffermarsi deve continuare a bruciare, ma è anche la lucida consapevolezza dell’inaccettabilità del male (stavolta) subito, che non può che risolversi nell’autoannientamento (nel suicidio, preannunciato da quella pistola acquistata per difendersi nel caos della Berlino post-bellica, pistola che tuttavia non può servire per proteggersi dal passato).
Nelly, apparentemente annichilita, fragilissima, quasi morbosamente incapace di sottrarsi al ruolo di vittima che il destino le ha cucito addosso, si rivela invece completamente solo nell’epilogo. Più che accettazione, Nelly è ostinata resistenza; più che perdono, è capacità di passare oltre, di dire addio, per rinascere davvero definitivamente, ma dalle proprie ceneri, in continuità con un passato che appunto in quanto tale, nel bene e nel male, è parte irrinunciabile della propria identità.