La donna dello scrittore
Petzold sintetizza passato e presente in un buco temporale, in una delle sue opere più radicali.
Tra Il segreto del suo volto e Undine – Un amore per sempre: è l’anello di congiunzione tra le due opere, tra le cadenze della Storia e del Mito, tra il possibile e l’inverosimile, tra la memoria del passato e del futuro. Un nuovo (ri)corso, un nuovo ritorno. Un transito. Una fuga impossibile come lo è l’amore. È il primo film di Christian Petzold in assenza del maestro, e spesso collaboratore, Harun Farocki; è il primo film – dopo tanti – senza la musa Nina Hoss, con Paula Beer (e Franz Rogowski, insieme con lei anche in Undine) a disegnare altre traiettorie sentimentali, a contenere altre implosioni esistenziali, a inventare altri corpi e spettri, figure del racconto che transitano incerte come il senso, condannate a un falso movimento dalle rovine della Storia e inchiodate all’indeterminatezza dello stato dell’essere.
La Francia odierna è sotto il progressivo scacco delle truppe naziste. Georg (Rogowski) e Marie (Beer); un uomo, una donna, i loro destini. Transit (La donna dello scrittore) – alla fonte c’è il romanzo Visto di transito di Anna Seghers (1944), pubblicato in Italia quasi dieci anni dopo – viaggia tra il mélo e il noir, dentro un buco temporale, in una sospensione quasi sensoriale, dentro un’apocrifa Jetée a colori, in un mondo che assomiglia al nostro ma che non lo è, in un tempo che potrebbe essere il nostro ma che non lo è. E Petzold ama i suoi personaggi irreali, proprio perché troppo reali. Del resto, secondo lui, «lo spazio cinematografico è questo: uno spazio tra persone». E sono proprio queste «persone» l’espressione più pura del sentimento confuso, inintelligibile, del tempo; come se questo fosse una loro proiezione, come se la loro soggettività fosse una realtà fattuale. Petzold rende possibile l’impossibile, senza fantascienza, come in un paradossale documentario di finzione, in una distopia realista, in una messa in scena di soglie vere e presunte. Nel Segreto del suo volto solo Johnny, marito di Nelly, non riconosce la moglie sopravvissuta ad Auschwitz. Qui, nella Donna dello scrittore, il Novecento si ripete senza mostrarsi.
Georg è un tedesco che ha lasciato la Germania, si è rifugiato in Francia, ma ben presto i nazisti arriveranno. Lascia Parigi, ormai spacciata, per riparare a Marsiglia. Nella città marina, per una serie di circostanze, verrà scambiato dalle autorità diplomatiche per lo scrittore Franz Weidel, intellettuale dissidente che in realtà si è suicidato in una stanza d’albergo, come sa molto bene Georg, in possesso di importanti documenti e lettere dell’uomo. Questa nuova identità potrebbe garantirgli la partenza via nave per il Messico, prima che i tedeschi giungano a occupare e rastrellare la città, ma tutto diventa più difficile quando conosce Marie, la moglie di Weidel, in cerca del marito scomparso.
È un’opera straniata e sdoppiata, La donna dello scrittore: le immagini del suo autore sono questione politica, quesito estetico, figure di una complessità problematicamente nitida, una relazione tra i suoi protagonisti e il mondo; le immagini che i personaggi vedono, vivono, sondano, sono immagini che si ricordano di altre: inaccessibili, inesatte, indecifrabili, forse mai esistite. Il rapporto che si instaura tra Georg e Driss, orfano del padre, sembra essere quasi il lacerto di un altro racconto nascente, una scheggia, un altro oggetto narrativo. Così come gli altri personaggi che l’uomo incontra: sono quasi immagini-limite, rivelazioni parziali, tracce di significati inarrivabili, di una verità introvabile. L’amore tra Georg e Marie è il lampante mistero del film, la sua identità imperscrutabile, la sua essenza ultima. La voce narrante, così lontana così vicina, non addensa, piuttosto ricama i fili sottili tra teoria dello sguardo d’autore e atlante emozionale dei suoi personaggi. I corpi sono incerti, i luoghi li raccontano, li dissimulano, li disperdono, li perdono. E nello iato tra la forma di Transit e quella del pensiero dei suoi protagonisti, del loro agire, nel vuoto tra questo cinema e i suoi abitanti, Petzold – come un subacqueo, come il Christoph di Undine – si immerge, cerca un indizio, forse un inizio, una verità finalmente possibile.