Nina e Toni. Due ragazze senza storia, esistenze che si muovono nelle loro solitudini, vite ai margini, interrotte, violate. Fantasmi metropolitani di una Berlino di piccole strade, parchi, dettagli della storia d’Europa che si portano dentro, ignare. E poi c’è Françoise, un’altra donna, un altro fantasma in transito, straniera in una città che forse ha riaccolto quella figlia perduta. Christian Petzold scrive, con il suo maestro Harun Farocki, Gespenster un film su tre vite disabitate, niente passato, solo un presente vuoto che cerca quotidianamente di scavalcare la sofferenza.
Nina è in affido ai servizi sociali, raccoglie i rifiuti in un parco ed è lì che incontra Toni, in circostanze difficili. Le due ragazze iniziano insieme un vagabondare metropolitano, rubano, si amano, recitano la loro storia ma Toni idealizza Nina, vuole rimanere con lei mentre Toni non riesce a gestire rabbia e relazioni e l’abbandona. Petzold, al suo terzo lungometraggio per il cinema, realizza un film asciutto e scarno, affonda nel disagio di queste tre donne, ognuna nella sua ricerca di un senso e di un modo per ricominciare. Le tre vite si attraversano ma solo per un istante, sono vittime di qualcosa di più grande che non riescono a controllare: Toni con i suoi problemi psichici, Françoise con il rifiuto di accettare la morte della figlia e Nina, orfana e senza affetti.
Gespenster mostra una vera e propria topografia di solitudini, la città come in tutti i film del regista tedesco è il ventre che accoglie queste microstorie che si riflettono nella più grande narrazione collettiva. Le donne ritornano e rivivono traumi senza però che il film sveli quale sia effettivamente la strada che le ha portate lì; piuttosto la regia di Petzold, ancora asciutta, non cede al mélo (che arriverà in film come Il segreto del suo volto o La donna dello scrittore) e favorisce dialoghi al minimo, oltre che sguardi, silenzi e un vagabondare che vicino agli attraversamenti delle solitudini garrelliane. Unica eccezione drammatica è la sequenza della festa, dove il regista sceglie una luministica rossa che accentua anche stilisticamente il momento di unione delle due protagoniste, intensamente visiva e in qualche modo premonitrice dell’ennesima fine. Ne risulta un film che riavvolge il nastro e immerge queste tre vite nuovamente nella voragine della città, delle loro strade deserte, ognuna nel suo personale percorso che non ha passato né futuro per noi. Sono istanti di tempo, passanti, madri e figlie senza identità e storia, temi che Petzold sempre adeguerà al suo sguardo e alle sue donne.