Jerichow
Il noir secondo Christian Petzold nell’odierna Gerico dell’ex Germania Est.
Christian Petzold prende un testo cardine della New Hollywood e lo riporta nella Scuola di Berlino: il punto di partenza è Il postino suona sempre due volte, il romanzo di James M. Cain, da cui Bob Rafelson trasse il cult del 1981 con Jack Nicholson e Jessica Lange, su sceneggiatura di David Mamet. Petzold invece se lo scrive da solo, senza il genio di Harun Farocki che aveva appena costruito il capolavoro del primo Petzold, Yella del 2007, con quel nastro di Moebius post-mortem capace di scattare a una sola frase («Ich liebe dich», Ti amo), il loro Mulholland Drive. Petzold usa Il postino per proseguire nella sua topografia della Germania riunificata, dopo Wolfsburg che pure portava un nome di città, e dopo Gespenster che inscenava i fantasmi berlinesi nella forma di tre donne e di una cicatrice come segno della Storia. Una topografia che arriverà al culmine nell’ultimo Undine, dove la creatura marina Paula Beer fa la guida turistica, spiegando la mappa di Berlino divisa e poi unificata, ma non basta abbattere un muro per scacciare problemi, spettri, mitologie. Ecco allora Jerichow, ex Germania Est, piccolo centro di poche anime, zona grigia e desolata e insieme allusione biblica, ossia la città in Cisgiordania che fu distrutta dagli ebrei con l’aiuto di Dio. Petzold ne raccoglie il portato simbolico per allestire un nuovo dissolvimento, una distruzione, quella insita nella natura umana.
Qui si installa il triangolo incarnato nei suoi attori feticcio: Benno Fürmann è Thomas e Nina Hoss è Laura, nome da noir di Preminger, sono loro che esplodono di passione e si mettono insieme per eliminare il marito di lei Ali (Hilmi Sözer), un turco trapiantato in Germania ubriacone e manesco. Thomas è tornato dall’Afghanistan, congedato dall’esercito con disonore, e arrivato a Jerichow fa la conoscenza di Ali, coinvolto in un incidente stradale e aiutato perché troppo sbronzo per guidare. Appena giunto a casa del turco, Thomas incontra Laura, la bella moglie, e inizia la passione. Petzold ha sempre frequentato lo stereotipo per sabotarlo, per introdurvi molteplici livelli che gradualmente si avvitano in abisso. D’altronde basti considerare le trame dei suoi film che, ridotte all’osso, si asciugano sempre in situazioni tipiche e convenzionali: incidenti stradali, madri e figli, donne in fuga, amanti gelosi, passato che torna. Stavolta lo fa perfino più apertamente riscrivendo un genere-archetipo, il noir. Naturalmente il regista tedesco lo manovra per portarci da un’altra parte, per esempio nella contemporaneità: c’è la “falsa” riunificazione della Germania, che ridisegna una cartina ma non risolve problemi, lasciandosi dietro molte “città di niente” come Jerichow; la penetrazione turca in terra teutonica, non sempre un virtuoso melting pot, vedi la viscida figura di Ali che picchia la moglie; i nuovi reduci di nuove guerre, ormai spaesati e figli di nessuno.
Sono alcuni temi che scorrono in filigrana nello scheletro del racconto ma, come sempre, il discorso di Petzold è eminentemente cinematografico: come insegna Farocki si scrive sempre attraverso l’immagine. È così che la convenzione del noir viene sottilmente sabotata dallo stesso regista: il rapporto tra Thomas e Laura sembra freddo e glaciale quando poi, all’improvviso, ecco la scintilla concretizzata nei due che si baciano con voluttà stringendosi in un abbraccio tentacolare. È un cinema di doppi e ritorni, quello di Petzold: Nina Hoss è già l’eterna donna fantasma che vive più volte, una femmina senza passato (come sarà ne La scelta di Barbara) che porta una maschera e riempie la sua figura di ambiguità. È un cinema hitchcockiano, lo attesta la doppia sequenza di Ali sul precipizio del burrone, con gli amanti che si dicono: “La prima volta non dovevamo salvarlo”. È un cinema del dubbio etico, fin dall’inizio (già Wolfsburg poteva sembrare un film dei Dardenne): qui Thomas e Laura organizzano il loro delitto, ma - sorpresa – Ali deve comunque morire ed è lui che spiazza gli amanti, riscrivendo totalmente il senso del racconto. Il turco ubriacone è davvero peggiore della coppia criminale? E Laura vuole ancora ucciderlo, dopo averne appreso la malattia terminale?
Negli ultimi minuti le posizioni morali si mescolano, i motivi dei personaggi si ribaltano, il loro reale sentire diventa indecidibile. Ci pensa Ali col suo gesto a chiudere la partita, lasciando forse agli altri l’ennesimo fantasma di Petzold: il rimorso. Il regista, oggi maestro della Scuola di Berlino, in questo titolo generalmente meno amato dimostra ciò che sa fare meglio: sfaccettare l’ovvio, inserire altre ipotesi di lettura, rendere questioni semplici complesse. E avvolge i suoi personaggi nell’ambiguità fino a prendere lo sguardo in una morsa.