Freaks Out
Al suo secondo lungometraggio, Gabriele Mainetti riconferma l'unicità del suo cinema con un'impresa rischiosissima che non assomiglia a nient'altro, tanto in Italia quanto all'estero.
What the hell am I doing here?
I don't belong here
Al netto di quello che è ad oggi, il cinema di Gabriele Mainetti potrebbe trovare il suo biglietto da visita nei primi quindici minuti di Freaks Out. Si comincia con uno spettacolo nello spettacolo, un momento di pura fascinazione spielberghiana a cui ci introduce l’affabulatore Israel, invitandoci ad aprire bene gli occhi, a lasciarci trasportare da quello che vedremo. Tra le tende logore ma orgogliose del Circo Mezza Piotta, facciamo la conoscenza di Cencio, Mario, Fulvio e Matilde e assistiamo incantati alle loro prodezze: ognuno di loro ha un superpotere e lo sfrutta per sbalordire il pubblico pagante. Uno spettacolo il cui cuore pulsante, come per il cinema, è la luce. Con la sintesi del miglior cinema popolare hollywoodiano, in una manciata di minuti abbiamo già le prime coordinate sui quattro protagonisti. Ma la brutalità della guerra stronca l’esibizione: è il 1943 e siamo in Italia, il Paese è dilaniato dai bombardamenti. L’atmosfera fiabesca viene spazzata dal caos di corpi mutilati, cadaveri travolti dalla polvere, grida e palazzi che crollano. La magia lascia il posto all’iperrealismo bellico di Salvate il soldato Ryan, in una sequenza che è già un unicum per gli standard produttivi nostrani. Tra le macerie, riemergono i cinque freaks sopravvissuti a menare i loro quattro stracci e le loro magre speranze in una Roma a cavallo tra la deformazione felliniana, l’epicità western di Leone e la crudezza di Rossellini.
Le premesse di Lo chiamavano Jeeg Robot trovano in Freaks Out una conferma: Mainetti ha il raro pregio di fare della contaminazione la via per immaginare strade nuove per il cinema italiano, schivando la tentazione del ritornello citazionistico. Un cinema da cui sarebbe sbagliato pretendere la misura perché proprio nella smisuratezza della sua immaginazione trova un cuore ipertrofico. In poche parole, Freaks Out non solo non ha eguali nel cinema italiano odierno, - com'è facile sostenere, - ma non li ha nemmeno al di fuori dei confini nazionali. Perché? Perché Freaks Out, come già Lo chiamavano Jeeg Robot, è un film italiano fino al midollo che non si vergogna di esserlo, pur restando incollato con l’occhio e l’animo di un bambino, a bocca spalancata, al cinema d’oltreoceano, – tanto per fare un esempio, inizialmente il titolo sarebbe dovuto essere Il sole di Roma. Che il banco di prova per una conferma così decisa sia proprio il contesto (fanta)storico della Seconda guerra mondiale non è un fattore trascurabile. Mainetti risale infatti al momento fondativo di quel cinema italiano amato ed esportato anche all’estero e si confronta con l’evento che più ne ha determinato lo sviluppo. Ed è soprattutto nel modo di maneggiare la materia storico-drammatica che il regista rivela l’unicità del suo sguardo, capacissimo al contempo di una deferenza tutta nostrana verso la tragedia bellica, quella cioè di una nazione che la guerra l’ha vissuta in modo assai diverso dagli americani, e al contempo di un’irruenza scapestrata e caciarona, prima impensabile per una pellicola italiana su quel momento storico, al di fuori del mercato b-movie. Come già in Lo chiamavano Jeeg Robot, ne è un tratto distintivo l’uso di una violenza fredda, cruda, mai edulcorata anche nei momenti più ludici, e anzi spesso tragica, in attrito con il tessuto fiabesco di fondo. Basta la scena del rastrellamento di matrice rosselliniana per rendersene conto. Da questo punto di vista, non c’è nulla della stilizzazione conciliante a cui ci ha abituato il cinema supereroistico e buona parte di quel cinema popolare a cui Mainetti si rifà, fin dai tempi di Basette, senza limitarsi a rifarlo.
Alla prova con una triplice sfida (un’opera seconda dal budget colossale e prodotta in Italia) Mainetti vince la scommessa perché abbastanza robusto da non lasciarsi schiacciare dalle proprie ambizioni; sa come soppesare in modo efficace trucchi ed effetti speciali (notevole, da questo punto di vista, tanto la componente prostetica quanto quella digitale), inseguendo il sogno di un cinema di massa ad alto budget, messo però, prima di tutto, al servizio di una scrittura che ha già le sue cifre autoriali. Perché se Freaks Out spicca il volo nei suoi momenti migliori, e riesce subito a rialzarsi in quelli meno a fuoco, ciò lo si deve soprattutto al turbinio di idee a cui ancora una volta Mainetti dà cuore e sostanza. Sono almeno due le vette di puro genio. Per prima la presenza, ancora una volta, di un villain di eccellenza. Franz, il nazista mutante gestore del Berlin Zircus, è un altro reietto melomane che vorrebbe uniformarsi a un sistema che lo ha estromesso, tutto in bilico tra narcisismo e complessi di inferiorità, lucidità preveggente e follia, fragilità umana e disumana bestialità. Un lavoro di scrittura notevole, cui si aggiunge l’interpretazione di Franz Rogowski (La donna dello scrittore, Undine), la cui caratteristica zeppola è qui un valore aggiunto che umanizza il personaggio e al contempo ne sottolinea l’inquietante deformità morale. Infine, l’idea, fulminante, di trasformare un iPhone (!) in una sorta di sfera di cristallo (dono e maledizione di Franz è quello di prevedere il futuro), uno strumento che sarà però del tutto inutile ai propositi del nazista. In una sequenza da lasciare a bocca aperta per intuizioni e impatto visivo, il dispositivo nelle mani di Franz si trasforma in una sorta di lanterna magica 2.0, producendo una moltiplicazione di schermi su cui scorrono video sulla storia del ‘900. Ma l’archivio potenzialmente illimitato di dati e conoscenze sembra declassarsi all’ennesimo trucco per stupire lo spettatore. Estasiato dalla mole di dati e immagini che letteralmente lo sovrastano, Franz sembra lasciarsene sopraffare, smarrendosi al suo interno, senza riuscire dunque a padroneggiare quella selva di dati per cambiare una storia di cui sarà vittima suo malgrado (ognuno tragga le proprie conclusioni).
Mainetti è tornato e ha alzato l'asticella delle sue ambizioni senza mai tradire sé stesso, ma anzi riconfermando quanto di bello visto in Lo chiamavano Jeeg Robot. E già solo per questo dovremmo essergliene grati. Per crescere e limare quei pochi aspetti ancora in via di maturazione, crediamo ci sarà tempo e modo. Quello che senz’altro ci auguriamo è che Freaks Out non faccia la fine di Franz, in grado di prevedere un futuro diverso per il cinema italiano ma incapace di renderlo realtà perché isolato dal sistema. Noi, vogliamo comunque essere fiduciosi, perché film come questo meritano ogni centesimo.