«L'imperitura fede degli amanti e dei poeti nella potenza dell'amore capace di vincere la morte, quel finis vitae sed non amoris che ci perseguitava da secoli era una bugia. Una bugia vana e tuttavia ridicola. Ma rassegnarsi a essere un orologio misurante lo scorrere del tempo, alternativamente rotto e riparato e nel cui meccanismo, appena messo in moto dal costruttore, cominciavano a scorrere disperazione e amore?» Solaris - Stanisław Lem
Claire Denis fornisce pochi indizi per ricostruire i fili di questo imperscrutabile viaggio, High Life, la vita su una navicella spaziale in una galassia lontana dal nostro sistema solare. Tossici (l’high del titolo si riferisce forse anche alle loro precedenti dipendenze) e delinquenti usati come cavie per un esperimento che probabilmente darà una speranza alla razza umana. Ma sappiamo poco di quello che è successo in questo futuro imprecisato se non dai ricordi sfilacciati di Monte, un Robert Pattinson statuario e glaciale e così tenero con la sua piccola figlia, ultimo bagliore della deriva umana.
High Life, disturbante e magnetico, ci pone di fronte a molteplici piani di interpretazione e questioni: la fine della nostra razza, l’ecologia e la salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo, la riproduzione e così la memoria e i ricordi, ma soprattutto l’aridità, intesa non solo come sterilità ma annientamento dei sentimenti. La dottoressa Dibs, interpretata da una sensuale Juliette Binoche, è a capo dell’esperimento: la riproduzione a ogni costo. Non c’è però nessun contatto, nessuna interazione fisica tra i condannati: solo un cubo (fuckbox) come stanza utilizzata per il piacere, mai condiviso, solo la masturbazione come sfogo e momentaneo appagamento. La voracità di una ninfomane e il suo sfrenato desiderio cannibale di Cannibal love - Mangiata viva vengono qui annientati completamente da una Medea e Lilith del cosmo che castra la pulsione delle sue cavie. Ma il desiderio irrompe, sempre, e provoca la disgregazione di questo piccolo microcosmo deviato. Bisogna riprodursi senza toccarsi: ci si sveglia, si fa attività fisica, la dottoressa raccoglie lo sperma e lo insemina quasi a tradimento in quelle donne utilizzate solamente come corpi, uteri che dovranno accogliere il seme, ma che difficilmente riusciranno a portare avanti la gravidanza.
«Il n'y a pas de rapport sexuel», direbbe qualcun altro.
Denis opera per suggerimenti e visioni, la voce narrante di Monte ci porta nelle immagini del suo passato traumatico che la regista sceglie di girare in 16 mm: una Terra lontana, un bambino, un cane. La navicella come zona per avverare il grande desiderio del concepimento. La vegetazione misteriosa, l’acqua e il suo rumore ci rimandano direttamente al cinema di Andrej Tarkovskij. Monte come lo Stalker è una guida verso l’ignoto e porta il marchio sui suoi capelli, la macchia bianca che contraddistingue gli stalker, unici detentori di quella conoscenza misteriosa. Claire Denis, omaggiando il regista russo, sceglie di darci delle rapide illuminazioni, ora con la dilatazione, ora la con frammentazione del tempo, sottraendo alla narrazione e concentrandosi sull’esperienza visiva. Gli ambienti freddi e rarefatti della navicella, la serra come oasi dove poter ancora toccare la terra umida e ricongiungersi con ciò che si è perso, la magnifica e disturbante sequenza della dottoressa Dibs e le torsioni orgasmiche nella fuckbox - bellissime le scenografie dell’artista Ólafur Eliasson.
Tentare di rispondere ai tanti interrogativi o ricostruire per causa-effetto non è certamente il punto del film. Come per L’Intrus, la sua opera più radicale, l’invito della Denis è a perdersi in quel movimento incessante che è il cinema, il suo cinema.
La navicella spaziale dove Monte e sua figlia sopravvivono è immersa nell’infinito moto dell’universo, schermo primordiale, teatro di un’eterna Odissea, tra le musiche oscure e ipnotiche di Stuart Staples. La bimba concepita nello spazio diventa donna e fertile, la fiducia in quel volto con il quale il film si chiude è la fiducia nella visione, vero interrogativo del film intriso di quella morale che restituisce ancora l’assoluta speranza nel ricongiungimento con l’immagine. In un mondo che gradualmente perde il contatto con l’altro, prediligendo l’erotismo freddo e solipsistico con lo schermo, High Life crede ancora nella potenza della visione come condivisione e contatto. Come la Hari di Solaris, il ricordo inafferrabile e mutevole di quell’immagine-mentale tornerà teneramente a tormentarci.