Certain Women
Storia di tre donne che trova la sua forza proprio nel non essere storia quanto sguardo lento sullo scorrere della vita
Anton Cechov diceva che se in un romanzo compare una pistola, a un certo punto dovrà sparare. Un concetto tuttora valido anche quando adottato dal registro cinematografico: siamo abituati fin dalla più tenera età a individuare indizi, gesti, parole e oggetti apparentemente trascurabili che in un secondo tempo si rivelano fondamentali per la comprensione e lo sviluppo dell’arco narrativo. Tutto deve tornare, essere coerente, poter essere spiegato, o almeno poter suggerire una visione più ampia dei fatti e dei personaggi.
La vita, ahimè, si guarda bene dall’inseguire una simile coerenza, ed è forse per questo che le storie sono indispensabili nella società umana: proprio in virtù del sollievo concesso dall’armonia intrinseca delle loro trame, tragiche o a lieto fine che siano. Tentare perciò di basare una narrazione sull’intenzione di dipanare gli esatti fili che tessono la quotidianità reale delle persone è un obiettivo ad alto rischio di fallimento; basta a far naufragare il progetto la probabile immensa noia provocata dal seguire una storia dove “non succede niente”.
Certain Women è un tentativo, piuttosto riuscito, di raccontare tre vite senza una reale conclusione narrativa, o qualsivoglia catarsi finale. Pertanto andrà messa in conto fin dall’inizio la possibile reazione frustata del pubblico. In Montana, sotto un paesaggio gelido, si susseguono tre brevi storie di donne colte nel tentativo, perlopiù frustrato, di giungere ad un punto esistenziale, anche minimo, che possa fare da punto di riferimento per il percorso di vita che stanno intraprendendo. Laura è l’avvocatessa di un uomo defraudato del risarcimento dovuto per un incidente sul posto di lavoro; Gina ambisce ad acquistare delle antiche pietre di arenaria per costruire una nuova casa, mentre Jamie, proprietaria di un ranch di cavalli, incontra per caso un’insegnante laureanda delusa dal proprio presente lavorativo. Sarebbe facilissimo cogliere qui gli indizi di un sotterraneo discorso al femminile sulle difficoltà di farsi strada, che si parli dell’ambizione di vedere il proprio lavoro riconosciuto (Laura), o il progetto di una casa realizzato (Gina) o anche solo due solitudini consolate dall’affetto (Jamie e Beth). Sappiamo che Laura soffre la scarsa considerazione professionale derivata dal suo essere donna, che Gina è in conflitto con la figlia adolescente e col marito – peraltro amante fedifrago di Laura – che il paesaggio stesso, selvaggio e gelido, invoca l’idea di rapporti congelati, vite isolate senza la speranza di un autentico contatto intimo.
Eppure non si può limitare il film di Kelly Reichardt ad opera lenta e sensibile. Per come le immagini si svolgono di fronte allo spettatore nella loro tenace silenziosa lentezza non viene mai meno il sospetto che l’obiettivo di Certain Women non sia un messaggio preciso, quanto la presenza della vita stessa colta nel suo svolgersi contradditorio, talvolta amorfo. Queste donne si muovono incessantemente nello spazio, in macchina, a piedi, a cavallo, si dirigono verso mete a volte inutili o enigmatiche senza un esito realmente chiaro. Non è gran cosa che Laura sia l’amante del marito di Gina, né che venga fatta momentaneamente ostaggio del proprio cliente depresso; non è importante che la figlia di Gina abbia un rapporto difficile con la madre, né che Jamie finisca per fare quattro ore di viaggio in macchina per raggiungere Beth, spiaccicare poche frasi di convenevoli timide e imbarazzate e poi tornarsene a casa. In un altro film tutti questi sarebbero indizi fondamentali per scavare a fondo nell’anima dei personaggi, trarne riflessioni toccanti sulla profondità dello spirito umano; non qui.
Qui conta quel sapore di vita “così com’è”, fatta di attimi significativi e no uniti in una sequenza interminabile dove solo una precisa manipolazione dei ricordi e degli eventi potrebbe produrne un racconto dal senso compiuto. Ciò non significa che per Kelly Reichardt sia bastato riprendere ciò che capitava e mostrarlo sullo schermo: imitare la vita è invero assai difficile, proprio perché se questa fugge da ogni racconto coerente, non è neanche del tutto anarchica e insensata. La capacità del film sta dunque nel cogliere questo miscuglio di tempo sprecato e preziosi attimi di lucidità che non conducono necessariamente a uno sguardo d’insieme ma valgono per la loro appartenenza imprescindibile all’esperienza della vita. Il senso di malinconia che ne deriva non è perciò dovuto alle storie in sè, quanto al dover scoprire sul grande schermo quello che è già noto, ma nascosto, in ogni quotidianità umana: le cose capitano, non hanno quasi mai un significato specifico, si perde molto tempo, si gira a vuoto, i momenti validi si riducono a pochi minuti su un’intera esistenza. Al singolo la scelta se apprezzare o meno il coraggio di un racconto strutturato in questo modo.