Suicide Squad
Nonostante i rimaneggiamenti Warner inflitti per richiesta del fandom, il film di Ayer riesce a conservare in tutta la sua incoerenza una personalità distinta rispetto agli altri cinecomics
Ritornano su tutto 1997: Fuga da New York, Quella sporca dozzina, I guerrieri della notte, all’interno di una confezione che vorrebbe replicare Guardiani della galassia mentre ribalta ogni paradigma di base di quella geometria, impeccabile ma fredda e da manuale, che caratterizza i capitoli degli Avengers.
Chiamato a dar forma al primo supergruppo di casa DC, David Ayer fa del suo Suicide Squad un film di ossessioni e mitologie cinefile, dove la fiaba romantica incontra il noir metropolitano mentre la cornice supereroica resta tale, ai margini di un discorso filmico che si nutre di un’anarchia schizoide, discontinua, sbagliata. E’ infatti impossibile negare come dietro questa costruzione caotica e spiazzante – che ignora bellamente le prassi narrative del cinecomics facendo saltare la progressione fluida degli eventi, la creazione della minaccia, la contestualizzazione del racconto – si nascondano malamente le cicatrici di seconde e terze versioni di montaggio; questo Suicide Squad, che di certo non brillava in partenza per le sue idee di sceneggiatura, è l’evidente risultato di riscritture e trasformazioni imposte da una casa madre perennemente sulla difensiva e in balia dei rumors digitali, stanca dell’eterno secondo posto e sempre meno convinta della strada imboccata fino a questo momento.
Del resto sarebbe ingenuo credere di poter giustificare nel solo carattere anarchico dell’operazione la macroscopica inversione di rotta che spezza a metà il film, diviso nettamente tra una prima parte forzatamente camp, evidentemente riarrangiata, e una seconda più cupa e violenta. Ma al netto di ciò, Suicide Squad resta nel suo intimo più genuino un film affascinante per quanto disorganizzato, poroso e duttile, un cubo di rubik dai molti colori in cui Ayer è costretto in un primo momento a testare, spasmodicamente, tutte le combinazioni per trovare quelle giuste, ma che una volta risolto gli permette di portare il racconto dove vuole, nelle labirintiche stanze dell’action metropolitano, una lunga notte fatta di irruzioni, gargantueschi scontri a fuoco e ralenti di pura stilizzazione grafica.
Suicide Squad allora vive davvero quando sottolinea la sua distanza da scontri nei cieli e astronavi per tendere alla strada, al conflitto urbano contro nemici senza volto, mentre il villian del giorno attende nel suo livello finale con svogliata e megalitica sete di distruzione mondiale. Al centro di questo film a metà, scisso tra gli influssi dei fan e la volontà d’autore, si muovono personaggi che vanno dall’insignificante al carisma d’eccezione, compresa una versione del Joker che sembra davvero strappata dalla pagina. Ma anche qui, immancabile, pende la spada della Warner e degli indici di mercato, Ayer è regista dedito ai freaks, agli outsider del conflitto, come i carristi consumati che animano il blindato di Fury. Deadshoot, Harley e compagnia avevano però poche possibilità di arrivare sullo schermo con il loro cotè di disagio e violenza e psicosi, questi antieroi sono a conti fatti disinnescati, innocui, presto pronti a cogliere l’occasione per un’immancabile e blanda redenzione. Fortunatamente però sotto i fuochi d’artificio più appariscenti e pretestuosi, tra le pieghe dell’action e del racconto eroico, trova la sua strada un piccolo melò sentimentale che regala i momenti forse migliori della pellicola, attimi in cui follia, violenza e sentimento convergono in un solo vertice, e Suicide Squad diventa brevemente quello che avrebbe potuto essere con maggior coraggio e libertà esecutiva.