The Plains
David Easteal dirige un road movie atipico, tra fiction e documentario, fatto di inquadrature fisse e densi blocchi di tempo in grado di farsi sguardo tanto sul particolare quanto sull'universale, autentico e pieno di vita.
Nella sua Introduction a The Plains per i Notebook di MUBI (piattaforma su cui il film è distribuito), David Easteal, regista qui all’esordio, si dice affascinato dai modi in cui il cinema tiene a bada l’impermanenza. Non è però tanto l’evenemenziale, la logica narrativa che sfronda, toglie progressione all’irripetibilità di un momento, all’avanzare delle lancette, quanto la fissazione delle immagini nella durata, la formazione di dense tasche di tempo che lo addomestichino. Lunghe riprese che guardano in modo fisso e non si premurano di altro – non di modificare la propria struttura e i propri movimenti –, se non della propria persistenza. David Easteal opera in questo senso, costruendo un film tra il documentario e la fiction che nel corso di tre ore si compone solo delle inquadrature fisse di un dispositivo posto all’interno di un’automobile (presumibilmente al centro dei sedili posteriori) e diretto in avanti, verso il parabrezza, la strada e i paesaggi di Melbourne che si srotolano col movimento del veicolo. Alla guida, tutti i giorni a partire dalle cinque del pomeriggio, c’è Andrew, avvocato di mezza età di rientro a casa lungo l’autostrada trafficata della metropoli australiana, in una routine che lo vede meccanicamente chiamare prima la madre (in una casa di riposo) e la moglie Cheri, interrotta di tanto in tanto dalla compagnia in auto del più giovane David (il regista in persona). Ognuna delle riprese ha una durata differente, dalle meno frequenti di pochi minuti alle più frequenti solitamente ben sopra i dieci minuti. Il montaggio giustappone così blocchi di tempo dentro i quali stanno eventi assolutamente semplici, drammi minimi, elementari, privi di sceneggiatura e messi in atto in presa diretta. La sola direttiva viene da un dialogo di poco precedente alle riprese in cui Andrew e David si confrontano sui possibili argomenti oggetto di discussione nel film: il percorso di apprendistato legale di David, il progetto di allontanarsi per un po’ dall’Australia, la perdita di memoria della madre di Andrew, qualche riflessione sul temperamento di sua moglie Cheri, la casetta in campagna della coppia attorno alla quale si estendono bianche pianure a perdita d’occhio.
L’automobile è e diventa anche qui uno dei luoghi per eccellenza della registrazione (non progressione narrativa) di immagini, il luogo e il mezzo entro i quali si definisce uno sguardo esibito, affatto neutrale. Specie se questo si legittima in assenza di una storia portante. L’automobile è la boité-regard nancyana, una scatola-sguardo, scatola per guardare. La vista si esibisce attraverso i finestrini e il parabrezza, esclusivamente implicata in questo spazio e in questa visione, dunque portata all’esplorazione, alla contemplazione. Il piacere del guardare. In questa implicazione forzata, dove l’attenzione della vista non è rilevata da un evento ma dalla persistenza del gesto del vedere, lo spettatore è portato appunto a registrare quanto di poco gli si palesa attorno, anche con il solo altro supplemento dell’udito: ascolta il tono monocorde di Andrew, ne assimila pian piano le preoccupazioni dentro l’ovatta della normalizzazione, e nel frattempo guarda con curiosità crescente verso le trasformazioni della finestra visiva incorniciata dal parabrezza al mutare dei paesaggi. Il micromovimento, la sosta nella stazione di servizio per fare rifornimento, David che guarda le foto e i video della casa in campagna di Andrew dal suo tablet. L’azione fluttua deleuzianamente nella situazione, non la rafforza, non la compie. Il momento qualunque che si fa momento rilevante. Dentro i blocchi di tempo dell’abitacolo, le aleatory strolls prendono il sopravvento. Si disegna cioè un’estetica che potremmo dire divagativa, digressiva, di un’attesa tradita ripetutamente dalla ricomposizione del quadro iniziale (il viaggio che riparte, alle cinque del pomeriggio e fuori dallo studio legale, con la stessa traiettoria stradale). Come la vita vera: dunque un’estetica della realtà.
A questo serve la sintassi della vista coatta nell’abitacolo, che fa del cinema la vita, e della vita il cinema. The Plains è in tal senso un ideale contraltare visivo del Ten di Kiarostami, il suo ribaltamento prospettico (lì, la piccola videocamera era sul parabrezza, rivolta frontalmente verso autista e passeggero). Come nel film dell’autore iraniano, le cose appaiono vere perché lo spettatore le vede palesarsi sullo schermo e senza alcun supporto tecnico, senza l’artificio di una troupe tradizionale. Vale a dire, senza menzogna. Al limitare dell’artificio, il dispositivo procede automaticamente a comporre il suo quadro (fisso nel movimento) di disvelamento del vero. E così l’inquadratura autonoma nell’automobile contiene ed esprime uno sguardo intimamente autentico della vita di Andrew, intimo per il confinamento dello spazio entro cui dialoga con l’amico David e con la moglie e con la mamma, persino col silenzio quando resta in ascolto delle voci distanti della radio o quando le sequenze si allungano senza che l’uomo apra bocca nella solitudine dell’abitacolo. La scatola-sguardo custodisce confessioni scaturite da questi dialoghi ricreativi e digressivi. Uno di questi partorisce un momento di grande poesia cinematografica, quello di una canzone da condividere, che a David probabilmente viene in mente perché il titolo suona come Cheri, il nome della moglie di Andrew. Quindi ascoltano e ascoltiamo Cheere dei Suicide, e come poche altre volte lungo la visione, un drone prende a volare, guidato da Andrew. Ci offre un altro punto di vista, cioè un’evasione, un’apertura alare altissima sulle pianure australiane, sopra la campagna di Andrew, la sua auto miniaturizzata. Sa di sogno e di bisogno, dopo tutta la chiusura e la ripetizione della guida. Nell’incastro in cui l’uomo è risucchiato (il lavoro e soprattutto il tempo del lavoro), come Cheri, come noi, queste immagini cambiano il loro statuto e senso. Da detour, si fanno immagini di vera affezione, ci ricordano che quantomeno possiamo desiderare e poi godere di essere liberi.