Blade Runner 2049
Villeneuve piega il mito ad una riflessione metalinguistica scaturita dalla rivoluzione sintetica dell'immaginario. Nessuna nostalgia o feticcio, dobbiamo tornare alla memoria e al sentimento.
«Dammi più vita, padre!»
Rafforzata dal doppiaggio italiano (in originale la querelle father/fucker attraversa tutte le versioni del film), la battuta di Roy Betty esemplifica come il tema centrale di Blade Runner sia quello della creazione, atto generatore dal quale non possiamo separare il suo complemento mortuario. Dare la vita significa, anche, dare la morte, condannare alla fine. Ma qualora la finitezza dell’essere venisse in qualche modo affrontata, stoicamente compresa e infine accettata, cosa resta dei ricordi e delle emozioni allo scorrere del tempo? Possiamo veramente lasciare che tutto vada perduto, come lacrime nella pioggia? O dobbiamo forse trovare un modo per conservare, imprimere, trasmettere, prima che il mondo che ancora ricordiamo si trasformi in un deserto di macerie, o peggio in un nostalgico museo di simulacri? Portando in nuovi territori i discorsi aperti dal film di Scott, Blade Runner 2049 smentisce le aspettative e, smarcato ogni intento mimetico che esuli da una pertinente coerenza macrostrutturale, affronta il tema della memoria e della vita intese come tracce verso il futuro, anzitutto dal punto di vista metatestuale del cinema e dell’immagine.
Con coraggio infinito (pari solo a quello dimostrato da David Lynch con Twin Peaks: The Return, che tanto ha in comune con questo 2049 per quanto riguarda nostalgia, tulpa e mito), Denis Villeneuve si impossessa del sequel e lo fa suo, senza tradire l’originale ma estendendone la portata al mondo frammentato e digitale di oggi.
Se Blade Runner è ancora un punto di riferimento per comprendere cosa sia la società postmoderna, 2049 si concentra sulla rivoluzione sintetica dell’immaginario, alle prese oggi con una fitta foresta di supporti elettronici e immagini binarie. Nel nuovo assetto sintetico del 2017/2049, l’immagine analogica del Novecento rischia di sopravvivere solo come feticcio, una Las Vegas deserta e divorata dal tempo, dove schegge di icone pop svuotate di senso si alternano in loop attorno al corpo cinematografico che oggi meglio di chiunque incarna le problematiche poste dall’aggiornamento dell’immaginario: Harrison Ford. Carne e immagine di Han Solo, Indiana Jones, Rick Deckard, l’attore si muove come un residuo anacronistico in mezzo a nostalgiche repliche bio-digitali, mentre attorno a lui il film sposa un improrogabile ritorno all’umanità del ricordo e della consapevolezza. Non a caso 2049 è un film di archivi contraffatti o corrotti, di informazioni analogiche e digitali che si perdono tra blackout e morte del dispositivo. Philip K. Dick si chiedeva se gli androidi sognassero pecore elettriche, oggi è lecito domandarsi se esista un oltre sintetico che segua la morte della macchina (e dell’immagine). La cancellazione di Joi è definitiva, ma forse il cinema e la sua storia non sono condannati allo stesso destino.
Come sarà l’immagine del futuro? Quello di Villeneuve è un film che nasce per interrogarsi sulla sua natura di aggiornamento cinematografico del mito. In risposta 2049 evita di farsi fotocopia sterile del passato ponendosi contro il regime di finzione nostalgica che rischia di avvolgere l’umano. Si antepone al deserto del reale il miracolo della vita, con un processo che comporta l’eliminazione fisica di quel feticcio sintetico che pretende di restituire il passato attraverso la sua imitazione (e in questo l’attacco alla gestione Disney del mito di Star Wars appare fortissimo).
Piuttosto Villeneuve guarda, letteralmente, al cinema del futuro, lasciandosi dietro le spalle le lusinghe postumane del puro artificio, illusoria via di fuga dalle rovine di un tempo dimenticato, per indicare una soluzione che sia prescrittiva, senza accontentarsi di descrivere (come meravigliosamente fa) la schizofrenia visuale e la resurrezione meccanica del mondo di oggi. Il discorso teorico non potrebbe essere più chiaro e coerente, e trova il suo punto di arrivo nella nuova vita attorno alla quale tutto ruota, quella sintesi di analogico e digitale a cui sola è affidata la riscoperta del sentire umano. Del resto il sentimento è come un virus, una volta attivato si diffonde dalla carne al chip, invade banche dati e cuori sintetici, in cerca di un’identità e di un corpo da abitare. È in grado addirittura di trasformare un programma in un fantasma affamato di vita, tatto, sesso, nuova frontiera di possessione in cui il ghost diventa l’essenza artificiale e la machine il corpo nudo della carne. In quest’ottica non stupisce la decisione di relegare ai margini della trama gli aspetti creazionisti ruotanti attorno alla figura di Wallace, o ancora la dinamica politica riguardante la schiavitù dei replicanti. Se il primo è un tema già perfettamente affrontato dal film di Scott, il secondo poco si adatta alla dimensione teorica soggiacente al tutto. A dominare il punto di vista è sempre e solo K, perché è dal risveglio del singolo corpo (sguardo?) che può iniziare il cambiamento e la rinascita del sentimento.
Alla luce di questo percorso, 2049 si rivela il più ricco e consapevole dei tanti film chiamati oggi ad interagire con il mito cinematografico per aggiornarne l’esistenza. Inoltre è l’ulteriore conferma del talento di Villeneuve, sempre più determinante e prezioso nella Hollywood di oggi, per come riesce a coniugare autorialità, genere e industria. Del resto Blade Runner 2049 è sì un luogo di riflessione metalinguistica di rara forza e coerenza, ma anche un’esperienza estetica di abbacinante bellezza. Coadiuvato come di consueto da un Roger Deakins in stato di grazia, Villeneuve accarezza l’estetica al neon di Scott ma fedele ai suoi propositi di fondo evita ogni calco nostalgico, adattando piuttosto la sua desolazione urbanistica alle lande astratte di Tarkovskij, riferimento chiave per una fantascienza volta a riscoprire il valore della memoria e dell’umano di fronte le sfide tecnologiche del futuro. Il risultato è un esperimento rischioso ma per noi riuscitissimo, che faticherà probabilmente a trovare un suo pubblico immediato. Qualora così fosse non dovremmo stupirci più di tanto, la crisi dell’immaginario messa in scena da Villeneuve ci parla anche di questo.