Dossier Joe Dante / 6 - Explorers
Cronaca di un film sul/del disamore
A vederlo così, senza conoscere la particolare e travagliata storia produttiva, Explorers appare il classico film affetto dalla sindrome del “dopo successo”: quel particolare stato d’animo, a metà fra euforia e incoscienza, che assale alcuni registi quando i lauti incassi del precedente progetto aprono le strade a qualcosa di insolito e libero. Una strana oasi, che a volte produce opere impossibilmente irresistibili (penso al Fuga da Hollywood di Dennis Hopper), in altri casi dei lungometraggi irrefrenabili e destinati a una imbarazzante implosione (il Dovevi essere morta di Wes Craven). Nel caso di Explorers, il successo fresco di Gremlins sembra generare questo strano ibrido tra Walt Disney, Steven Spielberg e George Pal, in cui Joe Dante pare seguire una linea di pensiero introflessa, una sorta di affanno accumulativo, senza che si intraveda una direzione chiara.
La storia dietro le quinte chiarisce meglio le idee, e rivela che Explorers è l’opera del disamore, della disillusione dopo il successo, il classico film “che non è quello che avevo in mente”. Un progetto voluto da una produzione frettolosa, che aveva per le mani solo uno script inconcludente, messo insieme pescando un po’ dalle suggestioni fantasy de La storia infinita, un po’ da una non meglio precisata idea della comunicazione fra le menti e i sogni (quasi una rilettura light di Dreamscape e Nightmare), con la cornice spielberghiana dell’incontro fra i bambini e gli alieni, chiaramente derivata da E.T.. L’idea era quella di dare al tutto una forma un po’ più compiuta durante la fase delle riprese, lasciando spazio libero all’estro e all’improvvisazione e con il senno di poi forse è stata proprio questa prospettiva ad attrarre lo stesso Dante. Sfortunatamente, le condizioni non furono quelle giuste e, dopo un primo montaggio in cui si cercava ancora di trovare la quadratura del cerchio, il film fu tolto dalle mani del regista per un immediato lancio nelle sale, naturalmente destinato a un sonoro insuccesso. A ricordo della travagliata esperienza, resta il tanto materiale caduto sul pavimento della sala di montaggio e oggi perduto, e le varie versioni circolanti, che a volte integrano o eliminano qualche passaggio.
Cosa c’è di realmente dantiano in Explorers allora? Sicuramente la tensione anarcoide che si estrinseca in un profluvio di citazioni televisive e cinematografiche, sullo sfondo fornito da una storia di bambini-adulti in conflitto con il mondo disegnato dai genitori. L’aspetto interessante di questa visione è la concretizzazione di un certo disamore che il regista dimostra rispetto a un immaginario pop e cinefilo che pure resta il viatico prediletto per leggere il mondo: gli alieni comunicano infatti con gli umani non attraverso le celebri cinque note degli Incontri ravvicinati spielberghiani, ma con un pot-pourri di rimandi televisivi e cinematografici che comprendono anche i classici Sci-Fi anni Cinquanta Ultimatum alla Terra, La guerra dei mondi e Cittadino dello spazio (quest’ultimo, guarda un po’, già citato proprio in E.T.). Ne risulta una cacofonia di suoni, voci, frasi più o meno celebri, con un effetto stordente: da una certa prospettiva è come se Dante cercasse rifugio in un territorio a lui più caro, ma – ed è l’aspetto più intrigante – questo accumulo indiscriminato ha lo scopo di respingere lo spettatore creando un inedito effetto nausea. Di qui il sospetto che il regista irrida semplicemente la società-spettacolo e mostri lo scollamento fra una qualità esteriore, fatta di perenni esibizioni su un palcoscenico, e un mondo reale di famiglie disfunzionali e rapporti filiali inesistenti, da cui discendono i giovanissimi protagonisti (fra cui si segnalano gli esordienti Ethan Hawke e River Phoenix). Se certe estetiche cyber-fantasy fatte di lisergiche geometrie possono pure far pensare a una sorta di latente derivazione dal Tron di Steven Lisberger, in realtà l’accostamento che viene più facile è dunque quello con la fantascienza più satirica a venire (si potrebbe vagamente pensare a RoboCop di Paul Verhoeven, che rovescerà lo spunto in una chiave esplicitamente feroce).
L’idea di per sé collegherebbe pertanto Explorers a altre due opere dantiane coeve: l’episodio Prigionieri di Anthony del film antologico Ai confini della realtà, con il bambino che tiene sotto scacco i parenti, e connota così il rapporto filiale come una autentica guerra portata avanti con il grimaldello della fantasia; e, naturalmente, Gremlins in cui la dicotomia fra il “buono” Gizmo e i sui cattivi figlioletti si rispecchia nello yuppismo rampante dei colleghi di Billy, che rimproverano al protagonista l’eccessivo altruismo verso i genitori. Explorers, se non è il film che Joe Dante voleva, è quello in cui la fuga verso un universo personale, generato dai sogni e che unisce suggestioni cinefile, amore per l’esplorazione spaziale, desiderio d’amicizia intergalattico e conoscenza dei linguaggi informatici sembra giungere non più a uno spazio ideale, ma a un mondo soverchiato dall’accumulo degli elementi e dei desideri stessi.
Lo strano fascino dell’opera è tutto qui, fra l’ingenuità di una fattura rozza e oggi molto datata, una pulsione molto evidente al gioco e ai codici infantili, e una sorta di latente malinconia che rende Explorers dolente e quasi in odore di auto-sabotaggio, lontano dalle palingenesi tipiche del fantasy anni Ottanta (in cui rientrano molti dei titoli sin qui citati) e dalle magnifiche cifre spielberghiane con cui pure si confronta. Se l’impressione è quella giusta, il travaglio e l’incompiutezza fattuale della pellicola sembrano adattarsi perfettamente allo scopo. Da notare il bel lavoro svolto in fase di adattamento, con le frasi adeguate ai paesi di destinazione: nella versione italiana, gli alieni citano Sandro Pertini, Roberto Benigni, Gianni Minà e il tenente Kojak. L’accumulo dei segni non deve prescindere dalla chiara percezione degli stessi, affinché sia ben chiaro il terreno in cui si va a iscrivere la vicenda e la morale della favola.