Dossier Paul Verhoeven / 10 - Showgirls
Dopo lo “scandalo” Basic Instinct, Verhoeven mette in feroce parodia trash la favola e la catastrofe. Tragedia ridicola dell’America dentro un «musical contemporaneo» in topless.
Volendo restare alle sole stroncature di casa nostra, comprese dunque anche quelle di Giovanni Paolo II, ecco che a paradigma potrebbe assurgere questa, di mereghettiana provenienza: «Paul Verhoeven, rimbambito da troppe tette al silicone, finisce col condividere lo sguardo ottuso della sua insipida eroina. Quanto a sesso ed erotismo, motivo di scandali gonfiati ad arte negli Usa, ce n’è come in una puntata del vecchio Colpo grosso»*.
Un fallimento commerciale e di critica (ma l’home video e successive esegesi o rivisitazioni, nel tempo, per certi aspetti ne ridisegneranno profondamente il destino); opera collezionista di Razzie Awards, il nuovo scandalo tre anni dopo Basic Instinct (con Joe Eszterhas, ancora, a curare soggetto e sceneggiatura per il regista).
Poteva esserci Charlize Theron ma «era solo un’ex modella», spiega il regista, «non aveva ancora girato film, quindi non la spuntò su Elizabeth Berkley, che aveva almeno un curriculum di episodi di serie tv. Credo sia stata la fortuna di Charlize, perché altrimenti sarebbe stata distrutta come Elizabeth. Anche la mia carriera ha rischiato di finire con quel flop: eppure credevo talmente a Showgirls che barattai il 70% del mio compenso di 6 milioni di dollari con il final cut, il controllo sul montaggio. Il resto lo avrei preso quando si fosse recuperato l’investimento. […] Oggi penso che Showgirls sia il mio film più elegante, per la fluidità dei movimenti della macchina da presa e le coreografie, nato dalla voglia di fare un musical contemporaneo»**.
E forse è proprio quel «contemporaneo» il problema, per un film che a metà degli anni Novanta fa sprofondare miti e simboli del decennio precedente, come pochi avevano saputo fare fino a quel momento. E lo fa soprattutto parlando, nel 1995, un linguaggio, uno stile, una messa in scena che il cinema coevo – dal mainstream alle zone più periferiche – in buona parte non ha ancora compreso, mentre certe intuizioni e consapevolezze, teoriche e fattuali, sembrano trovare maggiori ospitalità, possibilità nelle forme minori dello spot e del videoclip. Ecco, Showgirls legge il suo tempo, un regista olandese legge e interpreta, nel paradosso nascosto e nel parossismo esibito, i crolli e le transizioni dell’immaginario sociale americano; eppure a dirci forse quanto Showgirls appartenga più al futuro che al suo presente e al suo passato prossimo, è, mettiamo – altro strano paradosso, in apparenza –, la radicalità dei due Nymphomaniac di von Trier, i Canyons immaginati da Bret Easton Ellis e filmati da Paul Schrader, il Neon Demon di Refn. Umberto Smaila lasciamolo ai critici illustri. Non è un film erotico, Showgirls, è un «musical» sul desiderio già pornificato, vuoto, esanime, tra la favola e il racconto di formazione affondati nell’incubo trash, in un iperrealismo beffardo e sinistro. Gli occhi, i nostri, sono dominati.
Perlopiù conosciuta per la Jessie Spano di Saved by the Bell, sitcom statunitense a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, chiamata poi in Italia Bayside School, nel film di Verhoeven Elizabeth Berkley è, anzi, fa credere di essere, Nomi Malone, ma tiene alla lontana il suo passato, la sua storia, il suo vero nome. Arrivata a Las Vegas in autostop, le rubano tutto quello che ha – una valigia –, trova chi la aiuta, inizia a lavorare in un locale di striptease ma poi passa sul palco dello “Stardust” – palace e mondo colorato e vacuo che inghiotte, come la città, ogni innocenza, ogni principio, ogni verità –, come ballerina di un musical in topless collettivo. Impara presto le regole e spodesta meschinamente la star, Cristal (Gina Gershon). Alla fine non ce la fa più e molla tutto, finalmente padrona di sé.
Verhoeven trancia ogni sottigliezza e porta un’invasione di scimmie nei camerini, accosta animali e ballerine, azzera le psicologie ma assolutizza i personaggi come funzioni, esaspera il basic instinct in un’ambiguità (che è sempre e solo sessuale: la rivalità/attrazione tra Nomi e Cristal… l’infimo personaggio del direttore artistico dello “Stardust”, interpretato, da Kyle MacLachlan in questo senso è secondario). E così facendo sottrae alla ridondanza una ragione narrativa e ce la consegna come questione del corpo, dei corpi, come questione politica. L’America è un circo triste e senza tragedia, una mascherata vuota; il Sogno e i suoi derivati ridotti a malinconia caricaturale, a sentimento sterilizzato, a iperbole luccicante e sciocca. È un film cattivissimo, un paesaggio umano horror racchiuso in una trama piccola piccola, goffa, volutamente poco credibile, e attraversata da una salace e inverosimile sovrapposizione continua tra recitazione e personaggi che porta alla figurina, al dialogo forzato,stupido, irreale, al giornaletto. È la registrazione di una catastrofe mediocre, di un mondo scadente, sotto lo scacco di un nonsense spietato e di leggi del desiderio annichilite nelle forme di un potere stupido che dà un nome ai rapporti tra le persone. Il corpo, nudo, sudato, eccitato di finzione, non è racconto ma è la sua feroce parodia, la rivelazione della sua inutilità.
*Dalla scheda dedicata a Showgirls in Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film 2006, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005, p. 2398.
**In Marco Giovannini, La lezione di cinema. Faccia a faccia con Paul Verhoeven, «Ciak», n.3, marzo 2017, p. 89.