Dossier Paul Verhoeven / 7 - RoboCop
Con il suo primo film hollywoodiano, Verhoeven gioca con i generi per dare vita a una profetica riflessione sull'identità di un mondo già proiettato verso il proprio cannibalismo.
Una visione premonitrice quella di RoboCop, primo progetto hollywoodiano per Paul Verhoeven, diventato frettolosamente un classico attraverso varie tipologie di pubblico che ne hanno cooptato differenti aspetti, perdendone un po’ di vista le maggiori peculiarità.
Da un lato c’è stato chi ne ha gustato d’istinto le connessioni con il filone giustizialista, chiamato in causa sin dalla tagline con “il futuro della legge” - e in effetti uno dei slogan vagliati per il lancio pubblicitario chiamava in causa direttamente l’ispettore Callaghan, poi abbandonato per non incorrere in questioni di diritti. Dall’altro versante si pone chi ne ha riconosciuto i legami con il filone robotico/cyberpunk dal quale inevitabilmente il progetto attingeva: lo sceneggiatore Ed Neumeier aveva infatti maturato l’idea dopo aver lavorato sul set di Blade Runner, e la Orion Pictures aveva accettato di produrre il film dopo l’inaspettato successo di Terminator. Nel tempo, a queste visioni di parte si è aggiunta inevitabilmente la prefigurazione dei cinefumetti, per la figura del “super sbirro” e il classico percorso da “storia delle origini”, con tanto di epico score del mai troppo compianto Basil Poledouris: ironia del caso, a un certo punto vediamo un rapinatore prelevare un fumetto di Iron Man da uno scaffale.
In effetti, già in questo passaggio si capisce la capacità di vedere oltre, quella particolare attitudine che crea connessioni imprevedibili poiché si allinea con lucidità a un flusso creativo in divenire, fino a farsi visione del futuro. Che non è soltanto quello banalmente fantascientifico di cyborg e computer in grado di creare superumani, ma è una riflessione più profonda sull’identità di un mondo già proiettato verso il proprio cannibalismo: come il Romero di Zombi, anche Verhoeven vede l’America e il mondo in divenire, e coglie i germi del suo processo autodistruttivo, svelati con il grimaldello della satira. Rivedere oggi RoboCop è un’esperienza addirittura formativa per come il regista olandese e il già citato Neumeier sono riusciti a prefigurare il nostro presente, attraverso un ritratto sociale disgregato, in cui la forza dei legami umani si misura in denaro e l’ingerenza dell’economia va di pari passo con la pubblicità che ridisegna il reale.
La battaglia identitaria di RoboCop, per questo, non può che articolarsi nel merito della visione: riprendere possesso del punto di vista di Murphy è, per il poliziotto-robot, l’unica battaglia possibile in un mondo in cui le crisi globali sono appiattite dal sorriso imperturbabile dei mezzobusti delle news, e il demenziale programma del “Lo compro per un dollaro” rappresenta l’unico collante sociale, seguito con partecipazione tanto dai dirigenti d’azienda quanto dai criminali e dall’uomo della strada, che ride meccanicamente al reiterarsi infinito del tormentone. Con sagacia, Verhoeven crea un universo a strati dove la componente di fiction e quella satirica si intrecciano in profondità, ponendo il corpo e l’identità del protagonista come l’autentico campo di battaglia per il confronto finale: lo stile diventa così un incredibile tour-de-force espressivo, che Verhoeven porta avanti con l’ausilio della fotografia di Jost Vacano (già in Soldato d’Orange e Spetters), spaziando dalle fluide carrellate in steadycam negli ampi spazi della OCP, all’approccio più brutale con cui ritrae l’agglomerato post-industriale dei bassifondi, fino alla bassa definizione della “visione televisiva”, che è anche quella dell’elmetto di RoboCop – destinato non casualmente a essere infine rimosso per restituirci il volto spigoloso ma umano di Peter Weller. I vari sottogeneri sopracitati possono così trovare asilo tutti insieme in una visione di cinema totale che nasconde ma non abdica alla possibilità di una profonda lettura del reale.
La crasi che il titolo teorizza con l’unione di “Robot” e “Cop” è dunque sintetizzata dalla natura a metà di RoboCop/Murphy, guardiano eppure vittima di un sistema che sembra aver vinto la sua conquista dell’uomo, ma deve poi confrontarsi con l’imprevedibile pervicacia della volontà, che inizia dalla memoria e dal sonno per poi trasbordare felicemente nella realtà. Verhoeven e Neumeier hanno avuto il merito di pensare al di là di quelle terminazioni che pure il progetto titilla e hanno permesso al loro potenziale cinefumetto di assumere la caratura di una parabola, con risvolti anche cristologici: il percorso di Murphy è un canonico susseguirsi di martirio, morte e resurrezione, con tanto di “camminata sulle acque” finale, mentre il motivo della carne violata si fa grammatica filmica, tipica di un regista che nella verità della carne ha sempre trovato la sua maggiore spinta per sondare le problematicità dell’anima. In questo caso lo fa a un livello che fonde il corto respiro della produzione minore con l’ambizione del progetto universale.
La prova della riuscita di RoboCop è il perenne fallimento dei meccanismi di sfruttamento commerciale che il film ha inevitabilmente subito: dai blandi seguiti alla serie televisiva e a quella animata, fino al remake del 2014, tutti passati senza colpo ferire. Peccato che non sia invece andato in porto il progetto di sequel che lo stesso Verhoeven aveva accarezzato nel 2001 e che lo avrebbe visto di nuovo insieme a Neumeier e (forse) anche Peter Weller. Un segno di come il film dovesse comunque restare una gemma unica, un seme che poi Verhoeven ha comunque fatto fruttare nei successivi excursus fantascientifici di Atto di forza, Starship Troopers e del sottovalutato L’uomo senza ombra.