Dossier Steven Spielberg / 2 - Qualcosa di diabolico
Al suo primo confronto con l'horror, Spielberg costruisce un meccanismo cinematografico efficace e ricco di colpi di genio registico.
Dopo Duel, fulminante opera prima di un regista geniale capace di grandi risultati con pochi mezzi, Steven Spielberg si è confrontato con un genere ancora più complesso e difficile da manipolare: l’horror psicologico. Erano gli anni de L’esorcista (il libro era appena uscito, il film di Friedkin sarebbe arrivato a breve), e Spielberg produsse per la rete televisiva CBS un piccolo film che, a dispetto dei limiti tecnici e di budget, riusciva a prendere lo spettatore per la gola e ad imporsi come uno degli horror più interessanti dei primi anni Settanta.
Qualcosa di diabolico comincia con un suicidio. Dopo il prologo inquietante, una regia rassicurante ci introduce al cortile bucolico di una villetta di campagna. La famiglia Warton decide di acquistarla per sfuggire alla grande città e trovare un luogo di pace dove crescere i bambini. Naturalmente, la magione si rivelerà latrice di un passato oscuro e teatro di eventi sempre più misteriosi e inquietanti. Il marito (Darren McGavin), pubblicitario televisivo spesso lontano da casa, crede che la moglie Marjorie (Sandy Dennis) sia una credulona con troppa immaginazione, suggestionata da un eccentrico anziano studioso di pentacoli e da altri fenomeni profondamente disturbanti. Marjorie e i due bambini della famiglia dovranno affrontare da soli l’oscura presenza della casa...
È chiaro fin da subito come Qualcosa di diabolico metta in campo tutti gli stilemi e i tropi narrativi del cinema dell’orrore: le voci, gli oggetti inanimati che prendono vita, le porte che sbattono, i pentacoli e le possessioni... ma Spielberg sa quello che vuole, e riesce ad adoperare i soliti strumenti del genere con perizia e inventiva. L’obiettivo è semplice: lasciare il segno e graffiare lo spettatore. Per riuscirci, l’autore adotta diverse strategie.
Innanzitutto, elabora un’architettonica degli spazi e costruisce un “mondo” cinematografico coerente ed impeccabile, da lezione di cinema: l’ambiguo sguardo della macchina da presa crea uno spazio via via più claustrofobico, riducendo progressivamente il cono della visione e dissolvendo le fughe negli esterni della magione in favore di spazi chiusi e soffocanti. Quando lo spazio esterno compare, tende sempre più ad essere angusto, “ingabbiato” da ante di porte e finestre o, addirittura, a figurare solo come riflesso su un vetro o uno specchio. I personaggi si riducono a simulacri, ombre riflesse sugli specchi, mentre gli spazi di fuga e di movimento si riducono a semplici cambi di fuoco della macchina da presa.
Una particolare sequenza, quella della festa, enuclea perfettamente i tratti di una seconda strategia: la modulazione di assalti e ritirate, di alti e bassi drammaturgici. Si tratta di un long take tipicamente spielberghiano, e la filmografia del regista è ricchissima di esempi ancora più eleganti (da Lo squalo a La guerra dei mondi). Girata tutta in interni, è composta in buona parte da un’unica inquadratura che percorre gli spazi della casa e il caos dei numerosi ospiti. La macchina da presa è addosso ai personaggi e annulla gli spazi: claustrofobia e disagio nascono, qui, da un’occasione di svago e di gioia, e preannunciano la tragedia che sta per compiersi. Il momento di distensione narrativa è l’occasione di massimizzare la forza di impatto dell’assalto successivo.
Infine, ciò che rende Qualcosa di diabolico un’opera rilevante a quarant’anni di distanza è la sua sostanziale e radicale ambiguità. Ambiguità produttiva, vivificante, che fa germinare e crescere la visione nella memoria. Cosa sta davvero succedendo in quella casa? La possessione sembra innegabile, ma altri indizi visivi e narrativi sembrano andare nella direzione opposta. La follia di Marjorie scioglie i confini tra reale e immaginario Diverse sequenze dove il paranormale si manifesta vengono interrotte senza una reale risoluzione, magari con una dissolvenza in bianco... forse, allora, il film parla di qualcos’altro. Parla di maternità e di solitudine, di famiglie incrinate e infanzie spezzate. Oltre a Poltergeist, danza nella mente l’incubo di Rosemary’s Baby di Roman Polanski. L’orrore si fa ancora più concreto ed intimo: possiamo leggervi attraverso e scorgere, in filigrana, il normale e il convenzionale di esistenze molto più vicine alle nostre.
Qualcosa di diabolico è dunque la magia (oscura) del cinema. Molto più di Duel, è il primo film indiscutibilmente, chiaramente spielberghiano. I pezzi della personalissima morfologia della fiaba spielberghiana sono già tutti sulla scacchiera e, scambiando un paio di mosse, l’orrore può trasfigurarsi in avventura o favola per bambini. La distanza tra Qualcosa di diabolico ed E.T., o Jurassic Park, o Indiana Jones, è molto più ridotta di quanto non possa sembrare a prima vista.