Dossier Steven Spielberg / 3 - Sugarland Express
Dopo "Duel", Steven Spielberg ritorna per strada, dando vita a un carosello impazzito che anticipa di tanti anni alcune delle riflessioni più attuali sulla società delle immagini.

C’è un momento in Sugarland Express in cui s’intravede già tutto il cinema di Spielberg che verrà. Lou Jean e Clovis Poplin sono in camper e, sullo schermo del drive-in adiacente, osservano le immagini di un episodio di Road Runner. Lou non vuole nemmeno considerare l’ipotesi di non rivedere il suo bambino. Con una certa mestizia guarda allora verso lo schermo: “Non c’è nemmeno l’audio”, commenta tristemente. E’ così che Clovis simula per lei i suoni del cartoon. In un’unica immagine, vediamo riflesse sul finestrino le cadute del coyote e i primi piani dei protagonisti, leggiadri come due bimbi alla corte del mondo. Entrambi perdenti, entrambi folli, perenni sognatori. Come Willy, il coyote che non vince mai.
Tutto il complesso sistema di segni che configura il film (cartelloni pubblicitari, segnaletica stradale, linguaggio in codice della polizia) si è fermato per un attimo. Le corse, gli inseguimenti, la carovana di automobili della polizia che sembra “scortare” i protagonisti, la strada che scorre imperterrita molto prima delle lost highways di lynchiana memoria: tutto è in sosta, tutto si cristallizza per concedere ai coniugi Poplin un ultimo istante di intimità. Road Runner appare allora come la geniale sintesi visiva dell’intero film. Le immagini del celebre cartoon sono l’indice di un mondo dove si muore in ogni sequenza solo per rinascere in quella successiva. Al di là del finestrino la morte non esiste, al di qua del vetro la fine è certa, anche se è solo un pensiero infelice continuamente omesso. Eppure, in entrambi i casi, il gioco è il topos, il mantra, il cuore stesso della corsa.
Del resto Spielberg sarà un cantore trasparentissimo di una vera e propria poetica del gioco. I coniugi Poplin presentano già i prodromi di quel Peter Pan che appare in filigrana in tutto il suo cinema. Questi due folli bambini vivono la loro ultima grande avventura, godendosi tutta l’incoscienza, tutta la spensieratezza, tutto il loro essere, sempre e comunque, altrove rispetto alla spirale di violenza che li circonda. Il film di Spielberg è visto dai loro occhi, che sono quelli infantili della gag e della commedia slapstick. Eppure, proprio nella sequenza sovrindicata, assistiamo a uno scarto, a un cambio di traiettoria che sarà profetico, guidando il film verso la sua stessa fine. Lo sguardo di Clovis si fa più oscuro e, di fronte alla caduta bidimensionale di Willy il Coyote, vede già scritto il suo destino. Mentre Lou rimane all’interno di un mondo fatato, Clovis è in piena dormiveglia. Esce e rientra continuamente dall’avventura, alterna momenti di giovanile spensieratezza a istanti più oscuri. E’ instabile, troppo furbo per non conoscere il mondo, troppo buono per non amare l’avventura.
Questo inseguirsi lungo le strade dell’America, questa storia di poliziotti e banditi deve dimenticare Arthur Penn e i suoi Bonnie e Clyde per farsi allucinazione comica, parossismo cartoonesco con cui saper filtrare il reale. Ciò che rimane è l’ingorgo stradale, il caos sempre in movimento, la giungla asfaltata che riflette i cambiamenti, le ambiguità, le contraddizioni di un intero paese. Ecco allora che il road-movie entra nel territorio della bomba mediatica, della bolla in cui si consuma, giorno dopo giorno, la società delle immagini. Il vero viaggio di Sugarland Express è quello dell’informazione: dalla nascita della notizia alla sua progressiva diffusione. Lou e Clovis diventano fenomeni mediatici, eroi trattati alla stregua di rockstar in tournée: la gente acclama e applaude, i processi vengono interrotti, il mondo sembra fermarsi per dar adito al grande spettacolo del cinema. Il palcoscenico è l’America stradale, quella che espande i suoi confini all’orizzonte: al posto del pachiderma mostruoso di Duel c’è un carosello di automobili della polizia. Ma la tragedia sarà consumata lo stesso. Sulla riva di un fiume, lontana dagli occhi del mondo, la giustizia seguirà il suo corso: nessuna fiaba, nessun cartoon potrà salvare i protagonisti dalla deriva. Rimane il controluce di un fiume dorato del Texas dove ripensare alla grande avventura vissuta: restano le ombre, i "sopravvissuti", le tracce stesse dei Poplin. Ed è così che, contro ogni aspettativa, Spielberg anticipa l’epopea del grande fratello, l’ossessione della celebrità, il dominio della rete e della sfera pubblica (un po’ come il coevo Badlands, con Kit trattato come l’ennesima reincarnazione del ribelle per antonomasia, James Dean).
Lasciandosi alle spalle le strade di Duel e Sugarland Express Spielberg sarà finalmente pronto a gettarsi nelle profondità del mare. E il cinema americano non sarà più lo stesso.