7 sconosciuti a El Royale
Tra noir e metafilm, bravura e accademia, il cult mancato di Drew Goddard.
Un hotel negli anni Sessanta, al confine tra California e Nevada. Un colpo nel passato e una refurtiva nascosta sotto il pavimento. Sette personaggi in arrivo. Un meta-noir che riflette apertamente sul genere. Con Drew Goddard bisogna farci i conti: il regista, sceneggiatore e produttore classe 1975 è ormai un nome importante nel cinema americano, astro nascente (e ora nato) con una serie di script (Cloverfield di Matt Reeves, The Martian di Ridley Scott) e soprattutto con il primo film da lui girato, Quella casa nel bosco che nel 2012 ha agitato le acque dell’horror, tra consapevolezza del ruolo del demiurgo, ironia/autoironia e splatter leggibile al primo e altri gradi. Un’opera a cui, rivista oggi, si riconosce tranquillamente l’idea, la struttura e la profonda personalità: è stato per molti un cult, per quanto abbia senso nell’epoca della relatività e dell’etichetta a tavolino. Certo è che la scrittura era il nucleo di quel film d’esordio, con quell’osservazione clinica dall’alto che accendeva la riflessione meta, così come è centrale in tutta l’opera di Goddard: ovvio allora che lo sia in 7 sconosciuti a El Royale (titolo italiano di Bad Times at The El Royale), che ancora prima dell’uscita si porta dietro un’aura mitica e imperdibile.
La storia è archetipica: un manipolo di personaggi si riunisce in un luogo chiuso. C’è padre Daniel Flynn (Jeff Bridges), criminale travestito da prete che arriva all’hotel con un obiettivo; l’aspirante cantante Darlene Sweet (Cynthia Erivo); Laramie Sullivan (John Hamm), rappresentante di commercio con parlantina e in realtà agente federale; il concierge Miles Miller (Lewis Pullman, figlio di Bill Pullman) diviso tra formalità, dipendenza e voyeurismo; Emily (Dakota Johnson) che arriva con una ragazza in ostaggio (Cailee Spaeny) e in fuga da qualcosa. Il macguffin, come detto, è quel vecchio bottino da ritrovare.
Non è rilevante soffermarsi oltre sugli eventi e le relazioni tra i personaggi perché, di fatto, lo svelamento graduale è il senso del racconto e il suo diletto. Ben più importante è sbucciare l’operazione che Goddard pensa, scrive e dirige: il punto di riferimento è inconfondibile, Quentin Tarantino e in particolare The Hateful Eight, che la traduzione italiana si cura di citare proponendo un numero nel titolo (ma si pensa anche a 7 psicopatici di Martin McDonagh). La sostanza invece si fa più complessa: innanzitutto c’è la premessa liminare, con i protagonisti che si muovono continuamente al confine tra i due Stati (una striscia rossa lo segnala all’interno dell’hotel), da una parte si può bere e dall’altra no, in un correlativo oggettivo della doppiezza insita in ognuno dei caratteri. Tutti hanno qualcosa da nascondere, ogni persona sono due.
Il regista moltiplica la cabina di regia del film precedente, nella trovata delle stanze a doppio specchio del motel, tutte, in cui i clienti vengono costantemente osservati per conto di un’entità superiore non specificata (come i tecnici di Quella casa nel bosco, la mente non ha nome) al fine di probabili ricatti. Il gestore dell’hotel guardone, dai tempi di Psyco, osserva e qui riprende all’uopo con una cinepresa, gira su pellicola proprio come Goddard; e una bobina misteriosa fa anche parte della refurtiva, un video che incastra un uomo importante ormai scomparso e che non ci verrà mai mostrato. Basti questo per sondare la profondità metalinguistica del film, l’ambizione della sua messa in abisso, a cui contribuisce l’ambientazione Sixtiees: il pezzo grosso nella bobina è forse perfino Kennedy? E l’irruzione di Billy Lee (Chris Hemsworth), guru violento e carismatico, non ricorda Charles Manson arrestato nel 1969? La rete dei rimandi è potenzialmente infinita. Volendo cercare, si può trovare davvero di tutto dentro il dispositivo: da David Lynch a Sergio Leone («Mi sono ispirato al modo in cui allarga il quadro»), dagli hotel movies (la scansione in capitoli-stanze) al musical nero con la vera cantante Cynthia Erivo in esibizione perenne. Bridges è citazione vivente dei Coen. John Hamm di Mad Men. Nel nome Laramie risuona L'uomo di Laramie di Anthony Mann del 1955 (e il “buono” fa la stessa fine di James Stewart). E così via.
La gestione narrativa si conferma efficace: tra agnizioni e colpi di scena, Goddard gioca sulla moltiplicazione della prospettiva, girando le stesse scene da più angolazioni, celando o mostrando particolari a sua totale discrezione, e così costringendo alla continua rivalutazione di ciò che stiamo guardando. Pure troppo. Pieno di tic, vezzi e ritornelli, 7 sconosciuti a El Royale è anche un film freddo e accademico, nettamente calcolato, dimostrazione di bravura che non si nega ma diviene eccessiva nella sua costante ostentazione: dinanzi all’ennesimo delinquente vestito da prete si spinge il pedale del grottesco, si disegna la situazione weird, si rimesta nel topos usurato e nella messa in discussione del genere. Alcune sequenze di Goddard chiamano l’applauso, certo: sicuramente l’azione congiunta di padre Flynn che recupera il bottino con l’aiuto di Darlene la quale, sapendosi osservata, canta e batte le mani per coprire ogni colpo di martello, realizzando un inganno visivo-auditivo semplicemente magistrale. Alla lunga, però, il congegno suona prolisso (144 minuti): appesantito da flashback e divagazioni non sempre risolte, pericolosamente vicino allo scherzo futile come nel cameo di Xavier Dolan, avido impresario musicale che in due minuti sembra parodiare il presunto “snobismo” del suo cinema. Un po’ esagerato.
Insomma, il Goddard di 7 sconosciuti a El Royale è impegnato a confermare il suo statuto di cult, lo vuole a tutti i costi e proprio per questo non lo ottiene. A cavallo tra vari stati (non solo Nevada e California), la sua programmaticità lo mantiene nella zona dell’esercizio di stile e lontano da Tarantino. Possibile reazione: divertimento, applicazione al discorso metafilmico, perdita graduale di interesse, un filo di noia. Goddard non lo cita, ma a proposito di formule viene in mente David Mamet: autore di titoli come Il colpo, sommo teorico e cineasta che intreccia regole del genere, riflessione sul meccanismo e grande divertimento, semplice “piacere della visione”, in un impasto da manuale. Qui resta il manuale.