Don't Worry
Prodotto da Amazon, il secondo biopic di Van Sant trova nella storia del cartoonist John Callahan una naturale prosecuzione dei suoi universi di outsiders della West Coast.
Con Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot Gus Van Sant torna a Portland, città d’elezione, luogo mitico e reale nella sua cinematografia di artista errabondo che trova nel grande Nord Ovest americano la propria casa. La Portland delle comunità dei bassifondi di Belli e dannati, Drugstore Cowboys e Mala oche, quella della West Coast intrisa della controcultura hippy figlia dei Burroughs, dei Tom Robbins e della generazione beat, quella di un’umanità della strada e di una weirdness che ha formato lo sguardo di un autore sensibile alle alterità e alle vite vissute ai margini.
Di Portland è John Callahan (1951-2010), cartoonist tetraplegico sul cui libro di memorie il film è basato, che sembra provenire dallo stesso milieu di dropout, sognatori narcolettici, santoni, junkies e altri outsider vansantiani, oltre che dall’ ambiente “arty” che il regista ha realmente frequentato da metà anni Settanta in poi. Don’t Worry s’inserisce tra le produzioni non propriamente indipendenti di Van Sant (produce Amazon) ma sotto la superficie levigata del biopic c’è il cuore di un racconto intimo, personale e autenticamente sentito che sembra riportarci indietro ai film migliori del regista. Un biopic anomalo, che racconta il processo di liberazione dalla dipendenza dall’alcol e la personale resilienza di Callahan dopo il tragico incidente che a vent’anni l’ha paralizzato dalla vita in giù, confezionato in una struttura narrativa frastagliata e spiazzante, avanti e indietro nel tempo, che rompe la linearità consequenziale e il flusso del racconto.
L’alcolismo, la ricerca impossibile della madre, il gruppo di recupero, l’incidente, la riabilitazione fisica ed emotiva, l’affermazione del proprio talento artistico e il lungo percorso di redenzione attraverso il perdono e l’accettazione di se stesso sono i pezzi sfasati e sparigliati di una forma soggettiva di temporalità, vissuta come se il Tempo non esistesse, in uno stile registico dal montaggio scomposto e spezzato che sembra respingere ogni possibilità di afferrare il presente, di dargli un ordine, di ingabbiarlo in una forma compiuta e fissa che sfugga al caos del divenire in favore di un senso.
«Maybe life is not supposed to be as meaningful as we think it is», confessa ieratica Kim Gordon nel monologo che apre l’intero film. E forse è proprio nell’accettazione della mutevolezza (figura tipica del cinema vansantiano sono, dopo tutto, le nuvole) e nella predisposizione al cambiamento la direzione da seguire per la propria salvezza.
Don’t Worry è la passione di John Callahan. Lo vediamo viversi e raccontarsi in prima persona attraverso i dialoghi-fiume, negli occhi di Joaquin Phoenix che è tutto sguardi e mimica facciale, in un flusso di coscienza al limite tra sogno e realtà. Le visioni (i ginnasti e la mano della madre sulla spalla del figlio) sono le interferenze dentro un reale che non è mai autosufficiente nella poetica del regista, fin dagli esordi, in una costante tensione alla fuga onirica dinanzi ad una realtà inconoscibile. Il disordine percettivo del reale è un topos ricorrente della sua cinematografia (perfettamente teorizzato in Elephant), che gli eroi vansantiani tutti, da Mike a Blake, da Bob a Gerry, sentono di fronte alle inquietudini del loro essere nel mondo, in cerca di qualcosa che forse non troveranno mai, eternamente fuori posto. John Callahan non è diverso dagli altri adolescenti dei film passati: è un giovane adulto che resiste al flusso, alle correnti, alla conformità sociale; che cerca nella dimensione parallela dell’alcol prima e del disegno poi una propria casa, un luogo da abitare rassicurante e famigliare, nel tentativo di riparare ai guasti, agli abbandoni, di sopperire alle mancanze (nell’eterna utopia di un ritorno alla madre che non ha mai conosciuto, esattamente come Mike/River Phoenix in My Own Private Idaho). È nell’immaginazione e nelle illustrazioni di cui è punteggiata l’intera narrazione che si esplica il bisogno di uscire fuori di sé per ritrovare la strada di casa e attuare il proprio personale percorso di illuminazione e rinascita.
Don’t Worry, diversamente dai film più indie firmati da Van Sant, trova in un lieto fine consolatorio il proprio compimento: nel riconoscimento pubblico del talento e nell’appagamento dell’amore (Rooney Mara). Ma il cinema di Van Sant non cerca affermazioni, non offre sicurezze. Registra il reale come enigma, come flusso aperto in cui spesso vanno alla deriva personaggi fragili, lunari, eccentrici. È umanista. E Don’t Worry offre un affresco di caratteri secondari meravigliosamente umani: la vecchia conoscenza Udo Kier, la già citata Kim Gordon, Beth Ditto dei Gossip e soprattutto un illuminato Jonah Hill, messianico guro del gruppo di alcolisti. I loro dialoghi, apparentemente banali, sono confessioni intime che solo nell’ordinarietà trovano la verità profonda e disarmante di chi con quelle verità, quelle paure e quelle debolezze ha imparato a convivere.
Van Sant rivolge loro il suo sguardo complice, mai distaccato, mostrando tutta l’empatia nel ritrarre personaggi borderline di fronte all’abisso delle loro vite, con l’affettuosità di un fratello o di un consimile. Con lo stesso sguardo puro di ragazzini di strada che scendono dai loro skatebord per aiutarti a rialzarti dopo una brutta caduta.