Hell or High Water
Un polveroso western dall'anima noir che guarda al passato con senso del ritmo e studiata malinconia.
“Sembra stupido." Commenta, impassibile, un vecchio testimone, mentre una serie di rapine sta infiammando il Texas. “I giorni delle banche – prendere i soldi e scappare – se ne sono andati da un pezzo.”
E, in effetti, non si può negare che – stupido o no, anacronistico o meno – anche Hell or High Water, come i suoi rapinatori, sia un oggetto fuori dal tempo, il rispolvero efficace di un cinema crudele, sporco e spietato come non se ne vedeva più.
D’altronde basterebbero i primi minuti, con quei piani-sequenza lenti e inesorabili a scandagliare una realtà desolata e senza speranza (“3 tours in Iraq but no bailout for people like us”, recita un graffito sul muro), per convincerci che il film di David Mackenzie sa prendersi i suoi tempi, guardare al passato, ai generi, ai modelli per poi sfrecciare e districarsi – con sequenze rabbiose, ritmate da un montaggio e da una colonna sonora (firmata da Nick Cave e Warren Ellis) più che incalzanti – tra gli spazi di un mondo vasto come un intero immaginario.
Non poteva che essere il Texas più profondo il luogo privilegiato per raccontare la parabola criminale di Toby (Chris Pine) e Tanner (Ben Foster), fratelli che, per rifarsi da un torto subito da una banca, decidono di rapinare, in serie, tutte le sue filiali, braccati senza sosta da un vecchio Ranger (Jeff Bridges) in cerca della sua ultima avventura.
Quale ambientazione migliore ci sarebbe potuta essere per un western moderno che, con pochi, significativi tratti, sa concentrare in una distruttiva, ininterrotta corsa, tutta la schietta e dolente poetica del genere, ridendo di sé e del mondo che rappresenta, cinico e nero come le anime e le logiche che mette in gioco.
Perché è un universo a parte e, a suo modo, spietato il Texas grottesco di Hell or High Water, dove la posta in gioco è sempre troppo alta e una folla all’apparenza sonnecchiante è pronta a linciarti a colpi di fucile se fai la mossa sbagliata, mentre, tutt’attorno, i casinò e le banche pensano a fare il resto, dissanguando (come una di quelle migliaia di trivelle che scavano il suolo) una terra morta, un mondo che ormai vive solamente nella memoria ancestrale di qualche scorbutico nativo.
E se questa rappresentazione non trasuda certo originalità, è perché, in fondo, non ne ha bisogno, fossilizzata com’è nel suo immaginario e nei suoi stereotipi inscalfibili, congelata, come gli individui che la abitano, nell’ottusità primordiale dello stesso, indistruttibile mito della frontiera, nello scontro infinito e manicheo tra passato e presente, tradizione e progresso.
Un mondo vuoto che guarda, da lontano, ai Coen di Non è un paese per vecchi e si perde nella malinconia senza speranza dei perdenti di Peckinpah. Come se tutto il resto non contasse o, più semplicemente, non ci fosse mai stato.
Come se esistesse solamente, ancora una volta, quel gioco infinito tra sceriffi e banditi, indiani e cowboy. Guardie e ladri.