Air Doll
Un realismo magico che convince e coinvolge, e lavora sotto lo stile più dinamico e convenzionale del dramma commerciale.
Tra i registi giapponesi che hanno esordito nel cinema di finzione negli ultimi vent’anni, Hirokazu Kore-Eda è certamente tra i più influenti ed interessanti. Artista sincero e radicalmente eclettico, fin dai tempi di Maborosi (premio Osella a Venezia 1995) ha raccontato storie personali e diverse, ma accomunate da un’unica direzione di ricerca. La sua è un’incursione profonda nella natura umana e nel senso del suo esistere, come coscienza pensante e scrigno-sepolcro di ricordi. Un progetto filosofico che è la firma di un autore autentico e di un umanista genuino.
La ricchissima fonte del suo umanesimo è da ricercare nel grande cinema internazionale di autori come Theo Angelopolus e Hou Hsiao-hsien, con cui condivide l’ossessione per tempo e memoria. Ma soprattutto, bisogna volgere lo sguardo verso l’età dell’oro del cinema giapponese, con cui Kore-Eda ha intrattenuto un dialogo discontinuo ma serrato: Ozu e certo Kurosawa (quello del gendai geki, il dramma ambientato nella società contemporanea), ma soprattutto Mikio Naruse, con cui condivide un pessimismo esistenziale e una visione del mondo nel quale la liberazione o il riscatto sono illusori o non contemplati. La morte aleggia nel suo cinema: nell’agenzia di ricordi di After Life, dove improbabili impiegati si occupano di smistare le memorie dei morti per recuperare un unico ricordo da lasciare loro (in forma di film!) dopo il trapasso; nello straordinario dramma familiare Still Walking, capolavoro minimalista che nasconde la morte nei dettagli – nella camminata zoppicante, nella mattonella rotta, nei fantasmi del passato – e si fa poesia; e nel film di cui ci occuperemo ora, Air Doll.
Presentato a Cannes nella sezione Un certain Regard nel 2009, Air Doll costituisce un’ulteriore giravolta stilistica per il regista giapponese. Per raccontare la storia di una bambola gonfiabile che prende vita e impara a conoscere, amare e soffrire, Kore-Eda adotta uno stile più dinamico e vicino al dramma commerciale più convenzionale. Ma si tratta solo di un involucro da riempire con temi e domande ben diversi da quelli di un film di mestiere. Nozomi, la protagonista, è una bambola gonfiabile, un “surrogato per gestire il desiderio sessuale maschile”. Persino il suo nome è un feticcio: Nozomi era il nome della vecchia fiamma del suo proprietario (Itsuji Itao), un cameriere solo e frustrato. Li vediamo insieme, quando lui torna a casa la sera e le racconta crucci e problemi sul lavoro, la veste e ci fa sesso come se fosse una donna in carne ed ossa. Finché Nozomi prende vita. Una sequenza straordinaria ci mostra una metamorfosi impercettibile tra l’oggetto e l’attrice (la coreana Du na-bae) che la incarna. La parola “bello” affiora sulle sue labbra mentre guarda alla finestra e scopre il mondo.
La storia di Nozomi è la storia di una scoperta. Nozomi impara il linguaggio degli uomini, cammina per le strade con stupore e meraviglia. Trova lavoro in un video store. Si innamora. Un’educazione sentimentale dolorosa che passa attraverso la consapevolezza della fragilità della vita, la vecchiaia, l’inanità della morte. Smarrita come una bambina, ma con un corpo da adulta. Desiderata e abusata dagli uomini in quanto feticcio del desiderio e oggetto di consumo, Nozomi incarna le fantasie e i fantasmi di un’umanità debole e disorientata. Pur dilungandosi troppo nel dichiarare il proprio statuto di film “d’autore” e nel descrivere la vita di numerosi personaggi più o meno secondari (alcuni dei quali avrebbero fatto meglio ad essere espunti in fase di scrittura), il film di Kore-Eda mantiene un’atmosfera di realismo magico che convince e coinvolge.
Quando entra nel vivo del racconto, il film si allontana da una prospettiva lineare e si apre in molte direzioni diverse, che sono poi direzioni di ricerca. Ricerca del proprio creatore, il fabbricante di bambole; ricerca di comprensione e affetto in un rapporto emotivo e sessuale di amore e morte che ammicca a Nagisa Oshima; ricerca del sé negli altri e di altri hollow men in mezzo agli uomini (ma tutti lo siamo, ricorda un anziano signore che sta per varcare i confini della vita). Un’umanità alienata dalla quale Nozomi emerge in virtù della propria ingenuità radicale. Lei è ingenua nel senso comune del termine, di creatura semplice e innocente. Ma soprattutto nel suo senso etimologico: in-geno, generato dall’interno. Nozomi è il prodotto di una cultura e di una società globali da cui è impossibile esternarsi. Allo stesso tempo lei paradossalmente non può che esistere al di fuori di essa in quanto straniera, mostro incompleto, scheggia antropologica impazzita: nella propria natura ibrida, la bambola viva si fa testimone perfetta di un orrore strisciante. Frankenstein di plastica, ritratto con tinte vivaci in ambienti inondati di luce. Horror vacui, horror pleni: l’aria che entra ed esce dalla valvola sul suo ombelico e che le provoca il primo orgasmo, proprio nel momento in cui rischia di morire…
Nessuna ricognizione di Air Doll sarebbe completa senza una menzione del modo particolare con cui viene rappresentato l’impossibile e l’inverosimile. La prima trasformazione della bambola in carne ed ossa è da brividi, a metà tra verosimiglianza e palese finzione; riesce a coinvolgere e a distanziare lo spettatore allo stesso tempo, instaurando uno sguardo critico che persisterà su tutta la narrazione. I movimenti della bambola quando viene gonfiata sono quelli, intensi quanto grotteschi, di un amplesso, mentre la sua leggerezza è resa attraverso una “danza tra i pianeti” di cartapesta e piedi che saltellano in una stanza: kitsch poetico che, se vogliamo, è una delle tracce soggiacenti all’intera operazione. Lo potremmo definire un esercizio di estetica del vuoto, nel quale i silenzi e le grandi campiture d’aria sostituiscono il rumore e il realismo e si fanno pura poesia dell’immagine.
Gli effetti in CG che l’autore dispiega sono invece molto limitati, ma hanno precisi riferimenti iconografici: nel volo del dente di leone si può rintracciare un evidente richiamo al Forrest Gump di Zemeckis e alla stessa leggerezza critica di uno sguardo che si accosta, con ingenuo (di Nozomi) e ironico (di Kore-Eda) distacco, al mondo. Il film soffre di alcuni problemi che lo rendono inferiore alle opere più felici di Kore-Eda. La durata eccessiva e un certo schematismo appesantiscono, in definitiva, il risultato finale. Eppure, nonostante gli oggettivi difetti, Air Doll affascina e incanta con una storia che intreccia felicemente Pinocchio e filosofia giapponese, appunto sociale e piacere dell’immagine.