Civiltà perduta
Storia di un’ossessione che supera il tempo, alla ricerca di un’altra Storia possibile.
Il nero prima delle immagini, preludio necessario di un rituale antico quanto il mondo. Subito percepiamo il ronzio degli insetti, i suoni della foresta, il richiamo all’avventura. Un attimo dopo un fuoco si accende nell’oscurità, vediamo le sagome degli indigeni, figure nere che baluginano tra le fiamme della notte, echi ancestrali di un mondo perduto.
Il titolo, The Lost City of Z (da noi, infelicemente, Civiltà perduta), ci rimanda all’idea di un grande romanzo archeologico o alle istanze classiche di quel cinema d’avventura che non esiste più.
L’ultimo lavoro di James Gray è un film denso, ambizioso, che abita l’oscurità, perché la notte è il regno dell’ignoto. Spesso i volti sembrano sottoesposti, come se assorbissero i misteri di un paesaggio segreto, come se fossero già l’ombra della città perduta. L’Amazzonia si iscrive sul viso di Percy Fawcett, il militare con la minaccia del fallimento sempre in agguato. Il controcampo che Fawcett vede a occhi chiusi è la mitica Z che lo anima, lo rapisce o, più strutturalmente, lo costituisce. La città fantasma è la sua impronta, il calco del tempo, il demone interiore che lo alimenta e insieme lo divora.
Fawcett, in maniera non così lontana da Fitzcarraldo, rappresenta in pieno la coscienza infelice novecentesca, l’esploratore ardente che vuole dare vita a un’altra Storia. Spedito in Amazzonia per mappare alcuni territori della giungla, Fawcett si imbatte nell’ombra della città perduta di Z. La ricerca di una civiltà scomparsa, antica eppure già così avanzata, è l’ossessione che consumerà la sua intera esistenza. Torna a casa, poi parte, poi torna di nuovo e poi riparte ancora. Non importa che il mondo stia cambiando, non importano le trincee, la guerra, i figli che crescono: l’unica vera realtà è la giungla.
In Amazzonia, immerso nella vegetazione, cullato dallo scorrere dei fiumi, esiste un altro tempo, un altro mondo che, come un fantasma, lancia il suo irresistibile, irrefrenabile richiamo alla psiche di Fawcett. Ritorna alla mente la follia kurtziana ma anche – perché no? – quel mistero sconosciuto e mai rivelato di My Son, My Son, What Have Ye Done?.
La Storia che noi conosciamo si rifugia sotto terra, quando una cartomante svela la maledizione – o l’elisir – di Fawcett: un invito a vivere il sogno fino al punto di massima, estatica libertà. Un invito a considerare la vita - e l’immagine - come il responso magico ai sogni della notte.
Oltre il tempo, oltre lo spazio, James Gray reinnesta il senso dell’avventura, il piacere del racconto, l’ode commossa ai misteri inestricabili di un’immagine che, nel suo cinema, è sempre stata uno stato della mente, l’iconografia di una coscienza infelice e fallimentare. Quest’ultimo, visionario avventuriero risale il fiume per guardare in faccia la sua Fata Morgana. Il suo sogno ci pare più vero della guerra, più reale di quella società bigotta e retrograda che non credeva nelle fate: il deserto verde agisce e reagisce come estensione della mente di Percy Fawcett. È in questa totale aderenza tra dentro e fuori, tra idea fissa e spettri della Storia, tra civiltà perduta e civiltà sognata, che Gray dà vita al suo film in dissolvenza. Perché nella fusione incrociata tra le immagini, nell’impossibilità di stabilire i confini tra sogno e realtà, nasce e germoglia l’ossessione del protagonista.
Qualsiasi estasi è una caduta, qualsiasi ascesa un fallimento, qualsiasi morte è il pegno necessario per l’immortalità. Z diviene l’idea fissa del protagonista, la sua anima folle e gentile, suo elisir e anatema. Cos’è la foresta se non un regno di spettri, un ignoto spazio profondo che pur ci appartiene, che vorremmo far nostro in tutto il suo inestricabile, misterioso splendore? Il Mito ritorna nel momento stesso in cui le immagini si fondono una nell’altra: ecco il personale Cuore di tenebra di Gray, il suo viaggio verso un El Dorado tutto interiore. Tra Inferno verde e Paradiso perduto, con gli occhi trasognanti di meraviglia, James Gray si conferma ancora una volta uno dei più grandi narratori del cinema contemporaneo e Civiltà perduta perfino il suo film più personale, più intimo, più bello.
Il discorso non è stabilire se Gray faccia cinema classico, moderno o postmoderno, il discorso è semmai come l\'autore riedifichi, pezzo dopo pezzo, il Mito della conoscenza. Il fondamento, la fiamma ardente, il suo stesso inestinguibile lume. Uno come lui, da sempre dalla parte dei perdenti, degli sconfitti, dei sognatori, non può permettere che il fuoco di Fawcett si spenga nella giungla. Gray non crede nei fuochi fatui. Piuttosto fa in modo che il suo Eroe si dissolva in Z, che diventi lui stesso idea, sogno, fata. Per un attimo viene in mente la croce finale che il protagonista di Silence porterà sempre con sé, nelle zone più recondite del suo cuore, in viaggio nell’oscurità della tomba: in fondo entrambi i film parlano di una fede in grado di muovere le montagne e di un segreto conservato, anzi, custodito nel punto più dolce, più profondo, del proprio cuore.
Alle spalle del mondo, rimane l’ombra di Z. L’altra faccia della realtà è quella dell’immagine che si erge tra le rovine. Un’immagine bellissima come gli occhi di Nina, la donna disposta a ogni sacrificio pur di far brillare ancora i sogni della notte. E come quel figlio che contrae la stessa vibrante ossessione del padre e vive con lui nell’estasi di un’ultima, grande avventura. In fondo, ancora una volta, un atto d’amore.