I padroni della notte
Gray chiude la sua trilogia criminale con una gemma poetica di rara forza, cinema che parla la lingua del classico e della grande letteratura ma pone sempre al centro di sé il cuore dei personaggi.
Se quello di James Gray fosse un gangster-movie MGM uscito negli anni ’30, il finale de I padroni della notte sarebbe la perfetta e cristallina chiusa della classica parabola di redenzione, il ritorno a casa del migliore e più valoroso figliol prodigo. Nella scena finale la cerimonia di investitura è talmente radicale e ontologica che Bobby Green cessa definitivamente di esistere; redento il suo passato criminale può tornare ora ad essere Robert Grusinsky, fratello del dimissionario Capitano Joseph Grusinsky e figlio del deceduto Capo Albert Grusinsky. Poliziotto in famiglia di poliziotti, eroe in famiglia di eroi. Con l’abbandono del cognome materno e l’adozione dell’ebraico Grusinsky, il personaggio ribelle di Joaquin Phoenix si prepara ad accettare la griglia valoriale imposta verticalmente dal capofamiglia, con l’eredità morale e storica che da essa deriva. Per insediarsi resta solo la firma finale sul contratto, quel «I love you too» sussurrato ad un fratello perduto e infine ritrovato, eclissato, sostituito.
Il Re è tornato, e ha reclamato per sé il trono.
Il cinema criminale di James Gray – Little Odessa, The Yards, I padroni della notte: una trilogia puntellata sulle diverse prospettive del crimine (malviventi, politici, poliziotti) – è quanto di più simile ci sia oggi a ciò che firmerebbe Shakespeare se fosse un regista del nostro tempo. Non “semplicemente” scespiriano quindi, ma un cinema di genere in grado di dialogare in modo attivo con le forme archetipali e mitiche della narrazione, uno sguardo capace di tornare indietro con fedeltà e amore allo storytelling consapevole del proprio ruolo fondativo, al classico umanamente e culturalmente inteso come dialogo con le strutture profonde del mondo e dell’uomo. (Viene in mente Cimino, la capacità che aveva di trasformare il dolore intimo del singolo in violazione assoluta: la storica aggressione casalinga de L’anno del dragone, quello spazio domestico in frantumi che qui ritorna, traslato nella prospettiva ristretta di una macchina sotto la pioggia, nel momento della morte del Padre, sotto gli occhi sconvolti, inermi e paralizzati dal terrore, del Figlio).
Da giovane adulto Gray sviluppa una vera e propria ossessione per le parole del Bardo, di cui cattura con avidità ogni tragedia, commedia e opera storica. «I only wanted the film to be about cops on the very surface» dirà parlando del rapporto filiale che c’è tra I padroni della notte e l’Enrico V, entrambi sedi di corti in rivalsa, re dal potere debole e giovani eredi intenti a perdersi in una loro esistenza dissoluta e bellissima, erotica e vitale, esente dai vincoli morali e storici imposti per lascito famigliare. Enrico V come Bobby Green/Grusinsky, al cui fianco permane in un rapporto di amore-odio il mediocre compagno Hotspur-Joseph.
Ma il cinema dorato, profondamente elegiaco, di James Gray è tutto fuorché canto di redenzione, sterile nostalgia o omaggio postmoderno al Maestro. Con una sublime (verrebbe da dire politica) scelta di campo, Gray indossa le vesti del sacerdote e da subito innalza la liturgia del cinema al canto della fine, alla messa in scena di sistemi dilaniati da forze centripete e condannati per questo a collidere tra loro. Le corti di Shakespeare altro non sono che manifestazioni dorate di un mondo troppo vicino al collasso,pronto a prendere fuoco per l’ambizione e la follia e il desiderio dell’uomo e da lì crollare sotto le sue stesse braci. Così nel cinema di James Gray, dove i personaggi si muovono in quella trincea sottilissima e impossibile che vorrebbe separare la volontà dal destino, il libero arbitrio dal peso del passato, del sottosuolo, che sempre agisce attraverso le maglie del genere.
Come nel cinema di Mann anche qui è palpabile la consapevolezza di imporre sui personaggi vincoli di genere che diventano incarnazioni fatalistiche di un destino avverso, limiti di un mondo deterministico la cui condizione esistenziale è un acido che corrode e corrompe ogni potere decisionale. Del resto, esattamente come in Shakespeare, i protagonisti di Gray sono dilaniati da un dissidio interno, psichico ed emotivo, che si rovescia sempre in una scissione esterna, un conflitto duale tra parti in cui visioni morali, famiglie, si scontrano tra loro.
Quello creato da Gray è un cinema che si fa luogo d’incontro del letterario e del cinematografico, di Dostoevskij, Shakespeare e Conrad con Scorsese, Coppola e Cimino. Ma come recita la più basilare formazione poetica americana, nothing gold can stay, tutto tende in qualche modo all’entropia.
A resistere sono solo gli sguardi, gesti, assalti d’amore, fratture di dolore nell’emergere di morali sotterranee che suonano come una sconfitta, una scomparsa del sé. Un cinema capace di chiudere le sue storie tra il dolce e l’amaro, di stigmatizzare così quell’approccio escavatore che sempre rimesta il sopra e il sotto dell’animo, tensioni opposte che collimano nelle azioni del singolo individuo, eroe tragico. Cosa sono quindi queste chiusure se non il punto più alto della massima capacità di Gray di costruire una cosmogonia dell’empatia e del sentimento, adesione patetica dello sguardo e culto laico di un’immagine sempre salvifica, palingenetica, più forte della Storia e figlia di mille infinite storie. Non a caso I padroni della notte è un film capace di evocare nella sua natura concreta e assieme spiritica la cifra intima del suo tempo, facendo di essa il palco per una tragedia calata nella Storia e trascendente la stessa (qualcosa di simile oggi riesce solo a Chandor con il suo 1981: Indagine a New York).
I padroni della notte è in questo senso il film più esplicito riguardo la poetica cinematografica di Gray, il più radicale nel porre a confronto realtà inconciliabili con uno sguardo che unisce invece la chirurgica consapevolezza delle Mean Streets alla forza mitica de Il Padrino.
Gray non si pone problemi di statuto storico, aderisce evidentemente ad uno passato iconico riconducibile al classico ma è chiaro come tale aspetto possa farsi un falso problema se ci si dimentica come il punto di partenza di questo cinema siano anzitutto le storie e i loro personaggi, a cui Gray trova casa in un’immagine coltivata e conservata in un atto di cinefilia che non possiamo ricondurre mai alla mera nostalgia. Il cinema di Gray è troppo denso, colto, umanamente infinito per poter essere riportato ad una cifra distintiva. Non a caso chiusa questa trilogia le sue immagini prenderanno altre strade, percorsi di profonda coerenza emotiva e visiva ma assieme tracce di nuove riflessioni su quel rapporto infinito e infinitamente generatore che vive come religione antica e preziosa tra l’immagine e la narrazione. Tensione eterna alla scoperta emotiva, empatica, spirituale, agli abissi di sé e dell’altro:
«The role of art is to help us cope. In a way art is the atheist’s best weapon against loneliness. It’s the atheist’s religion. It’s coping with mortality». Parola di James Gray.