Little Odessa
Il folgorante esordio di James Gray è un film seminale. Tra un cinema che brucia e un passato che non passa.
Il dettaglio in penombra degli occhi di un sicario, ripresi poco prima che egli compia un’esecuzione a sangue freddo. La pellicola di La valle della vendetta, western del 1951 di Richard Thorpe, che prende fuoco in una sala cinematografica del Queens, di fronte agli occhi di un attento adolescente. L’arrivo del treno, un vagone della Sixth Avenue Express, ripreso in direzione contraria rispetto a quello, di cento anni prima, della stazione di La Ciotat. È così che inizia Little Odessa, opera prima del 1994 di uno sconosciuto regista newyorkese venticinquenne. È così che inizia il cinema di James Gray, a oggi, probabilmente, il più grande regista americano che abbia esordito negli ultimi vent’anni.
L’autoriflessione sul cinema, sulla sua storia, le sue forme e i suoi linguaggi accompagnerà, da adesso in poi, tutta la filmografia di Gray. Ma questo esordio fulminante è in qualche modo seminale. Racchiuso in tre minuti c’è già tutto ciò che troveremo nel suo cinema: Scorsese, Coppola e l’immaginario della New Hollywood, cui il regista si richiama fin da subito, già dalla sua primissima scena; il cinema di genere, il western, e la formazione cinematografica di un adolescente cinephile del Queens; il cinema delle origini, cui rende omaggio cento anni dopo la sua nascita, suggerendo però il bisogno di una direzione alternativa. Per non rimanere schiacciati da origine, passato, memoria.
Non in ultimo, e certamente non a caso, le vicende sono ambientate a Brighton Beach, la Little Odessa di New York, a due passi da Coney Island, da dove il cinema delle attrazioni, almeno negli Stati Uniti, si è sviluppato. È sempre qui che una tra le più grandi comunità ebraiche russe d’America si è stanziata dopo la Seconda guerra mondiale, iniziando a controllare il territorio circostante anche grazie alla criminalità organizzata. È una guerra tra bande quella che ci viene presentata, a partire dall’immediata reticenza di Joshua Shapira (Tim Roth), costretto al ritorno a casa per compiere un omicidio su commissione. Joshua non ha scelta, perché un sicario non dispone di alcun arbitrio. Dovrà, dunque, fare i conti col proprio passato, nei più classici dei ritorni a casa degli (anti)eroi epici.
Joshua ha rinnegato la famiglia e le tradizioni, distanziandosi dalle sue origini ebraiche. Il padre Arkady (Maximillian Schell) lo crede ormai morto, mentre la madre Irina (Vanessa Redgrave) sta morendo di cancro al cervello. Deve tornare a casa, dunque, rendendosi allo stesso tempo invisibile al suo passato, per portare a termine il compito che gli è stato assegnato. Il primo a trovarlo sarà il fratello minore Ruben (Edward Furong), cresciuto con il mito di Joshua, che tenta di reintegrare in famiglia contro il volere del padre dispotico. Arkady prova con la forza ad estromettere nuovamente il figlio maggiore, reo di aver ormai aderito a una vita criminale poco consona alle tradizioni familiari. Un figlio ormai perduto, per cui non c’è perdono.
Nel frattempo, Joshua e Ruben tornano ad avere un rapporto, seppur di nascosto dal padre. Mangiano i famosi hot-dog di Nathan’s, vanno insieme al cinema – stavolta a vedere un Nightmare, riferimento generazionale più prossimo al regista. Tra loro, una donna, Alia (Moria Kelly), anche lei ebrea russa, di cui Joshua s’invaghisce. Sia il rapporto padre-figlio che quello tra fratelli sarà poi ripreso e approfondito in tutto il cinema di Gray. È la famiglia il centro nevralgico del suo mondo: dove tutto nasce, confligge e s’imputridisce, per poi tornare al punto di partenza del ciclo vitale. Anche per questo il regista decide di non entrare mai all’interno dell’intimità familiare. Quando riprende le situazioni più riservate lo fa sempre osservando da fuori, entrando raramente dentro le stanze di casa Shapira, non invadendo mai lo spazio domestico e scrutando i personaggi e le loro movenze da un metaforico buco della serratura. Usa spesso la macchina a mano, ma non sta mai addosso ai dettagli: preferisce rimanere sull’uscio, assumendo uno sguardo da ospite, rispettoso e pudico, mai indagatorio. Su questa scia, tutte le violenze, le esecuzioni, le efferatezze sono ricoperte da un velo di decenza, sempre presentate fuori scena, o comunque di notte, in penombra.
Tutti i conflitti familiari ruotano attorno a un passato problematico, che non ci viene mai del tutto svelato. È un passato che non passa, che porta con sé ferite aperte che trasudano sangue – come le lenzuola bianche e pulite, macchiate di rosso dal sangue che disseminerà la scena finale. Così come la memoria del passato diasporico della comunità ebraica russo-americana, che accompagna come un filo rosso la storia dei protagonisti. La stessa natura vagabonda di Joshua viene più volte palesata dai continui riferimenti, spesso contraddittori, al suo essere originariamente ebreo, quindi naturalmente errante. Una memoria impossibile da scrollarsi di dosso. Il momento più opprimente, in questo senso, è forse quello del tentato parricidio di Joshua, ripreso in campo lungo. La neve, il freddo e la steppa circostante confondono il tradizionale paesaggio americano con quello dell’est-Europa. Le radici si mescolano con la modernità, raffigurata dal ponte sopraelevato sullo sfondo, e così la storia con il presente. Una piccola Russia in territorio americano, dove due culture s’incontrano, confliggono, e generano un cortocircuito esiziale.
Con questo proposito, Gray costella il film di numerosi riferimenti metaforici legati alla cultura ebraica, alcuni palesi, altri meno. Il più evidente è l’atto, compiuto da Joshua come un rituale, di bruciare i corpi delle proprie vittime all’interno di un forno di mattoni, che rimanda esplicitamente ai forni crematori delle camere a gas. In un caso specifico, Ruben osserva da una collina uno di questi forni da cui esce il fuoco di un cadavere bruciato, ricordandoci l’analogo schema voyeuristico cui abbiamo assistito nelle scene iniziali, ovvero la pellicola del film di Thorpe che brucia sullo schermo, anche lì osservato dagli occhi Ruben. Il cinema, ci suggerisce ancora Gray, ha sempre a che fare con la memoria. E la memoria, da parte sua, si nutre costantemente dell’immaginario da esso generato.
Anche il corpo di Vanessa Redgrave brucia, ma dall’interno. Quello dell’attrice britannica, che personifica con la sua immagine un cinema che appartiene al passato, è un corpo smembrato, logoro, scavato da un cancro che non accenna a fermarsi. È il corpo di un animale morente, che va accudito e accompagnato lentamente verso la sua stessa decomposizione. Il funerale che le prepara Gray è un onorante encomio al cinema del passato, un appello alla memoria imperitura che, allo stesso tempo, introduce una categorica discontinuità: quella di uno sguardo inconsueto che, tramite gli occhi fissi e glaciali di Joshua della scena finale, può finalmente immaginare, ri-pensare e ri-vedere un passato che, prima o poi, dovrà pur passare.