The Pleasure of Being Robbed
L'esordio su grande schermo del cinema dei Safdie; gira solo il fratello Josh, tra iniziale approccio naturalistico e comicità paradossale che sarà poi marca d'autore.
Assimilato il clamore internazionale di pubblico e critica nato con Good Time (Cannes 2017), alcune caratteristiche della marca stilistica ed estetica del cinema di Josh e Benny Safdie si sono fatte più che evidenti, e rintracciabili già nei due film precedenti. Il loro primo lungometraggio, The Pleasure of Being Robbed (firmato in realtà solo da Josh) mette in scena il mondo e l’immaginario caro ai due fratelli newyorkesi, popolato da outsiders e losers persi nel traffico e nella folla metropolitana.
Il film mostra la realtà quotidiana di Eleonore, fatta di incontri fugaci e casuali con persone sconosciute a cui si approccia, apparentemente per istaurare un dialogo ma di fatto per sottrarre sempre qualcosa. La giovane non sembra rubare per necessità economica, anche perché gli oggetti presi non sempre hanno un valore spendibile, quanto per scoprire, provocare e conoscere l’altro, connettersi e dare una forma identitaria a volti altrimenti persi tra la folla. Dare una luce a quelle ombre. Analogamente, la regia cerca di cogliere il viaggio picaresco di Eleonore attraverso lenti zoom che isolano e mettono a fuoco la ragazza distinguendola dal flusso di persone. I totali si alternano a strettissimi primi piani, mentre la macchina da presa, in costante movimento, più che infondere un senso adrenalinico e febbrile, come avviene invece in Good Time e Diamanti grezzi, è in linea con la ricerca di un approccio naturalistico. Tuttavia, l’attinenza alla realtà viene più volte scardinata con episodi comico-paradossali; basti pensare alla borsa contenente un cane e alcuni gattini, regalo di un padre alla propria figlia e che Eleonore sottrae, non conoscendo il contenuto, oppure l’incontro finale, allo zoo, con l’orso polare. L’animale, chiaramente di cartapesta, viene stretto in un lungo abbraccio dalla donna, che sembra ricercare in lui calore e affetto dopo essere stata arrestata per furto.
The Pleasure of Being Robbed sembra delineare la natura di sguardo che troveremo anche nei lungometraggi successivi, a partire da Heaven Knows What, in cui la macchina da presa si sofferma su Arielle Holmes, ragazza tossicodipendente che mostra la propria quotidianità (il film è un adattamento del suo libro autobiografico, Mad Love in New York City, commissionato dagli stessi registi). L’attenzione verso chi vive ai margini, figure perse tra la folla, risulta lampante anche in cortometraggio del 2012, The Black Baloon: oltre che alla macchina da presa, in questo caso, anche un palloncino nero, ritornato al suolo dopo essere stato liberato in volo, pedina i personaggi che si muovono e districano nel traffico metropolitano di New York.
The Pleasure of Being Robbed, nonostante presenti alcuni topoi che caratterizzano il cinema dei fratelli Safdie, rinuncia completamente al ritmo pulsante, alla tensione frenetica e adrenalinica, dettata anche dalla musica elettronica, che contraddistingue invece gli ultimi due lavori; mancano anche i virtuosismi, come la panoramica aerea che fa da incipit a Good Time, o i tratti psichedelici suscitati dai cromatismi notturni e dalla palette di colori al neon. La loro opera prima, probabilmente anche per motivi di budget, si concentra invece sul delineare e definire un microcosmo così come una marca stilistica ed estetica, con richiami a Cassavetes e Scorsese; siamo dalle parti di Fuori orario, con un cinema capace di coniugare un tratto naturalistico con una dimensione chiaramente action, staccandosi dal cinema indie americano propriamente detto.