Jurassic World
Un ritorno nel parco delle meraviglie per riflettere sulla natura derivativa della Hollywood contemporanea e sullo scacco di un immaginario
Una delle maggiori critiche rivolte nel 1993 al Jurassic Park di Steven Spielberg riguardava le presunte debolezze di scrittura e soprattutto il modo in cui il regista aveva impostato il classico scontro finale. I quattro protagonisti si trovavano nel centro di accoglienza del parco, braccati da due Velociraptor; nell’istante in cui uno dei due saltava per aggredire i quattro sopravvissuti, un T-Rex sbucava dal nulla azzannando il Velociraptor e consentendo così la fuga dei protagonisti.
L’uomo non aveva quindi nessun ruolo nella risoluzione finale, la sua sopravvivenza era dettata dal caso e dalla fortuna, il suo eroismo inevitabilmente messo da parte (segnando in questo senso un notevole scarto rispetto al precedente Indiana Jones) e quindi trasformato in una sorta di spettatore passivo davanti allo scontro tra dinosauri. Un’intuizione questa che se rimetteva in discussione anni di speculazioni teoriche sul ruolo narrativo dell’eroe, da Cristopher Vogler in giù, suggeriva anche l’idea di come l’immaginario cinematografico, qui rappresentato dai dinosauri, fosse ormai qualcosa di autonomo dalla volontà dell’uomo/creatore, come fosse un sistema di segni totalmente indipendente e destinato a riprodursi potenzialmente all’infinito.
Una riflessione sicuramente ambiziosa che poteva venire solo dal regista che più di ogni altro aveva marcato a fuoco l’immaginario collettivo degli ultimi tre decenni di cinema.
Ventidue anni dopo, Spielberg ritorna come produttore esecutivo di Jurassic World, di cui ha affidato la regia al giovane Colin Trevorrow. Davanti a un film che è allo stesso tempo un seguito dei precedenti tre capitoli e un remake-summa di tutta la trilogia di Jurassic Park la domanda che nasce spontanea è: qual è lo stato dell’immaginario spielberghiano oggi e, per inevitabile estensione, di quello collettivo?
Ciò che stupisce in Jurassic World è la consapevolezza quasi masochistica con la quale, a ogni inquadratura, si riafferma la natura totalmente derivativa del suo immaginario.
Non parliamo qui delle implicazioni metalinguistiche legate alla necessità di creare in laboratorio un nuovo dinosauro per attirare spettatori nel parco (un semplice aggiornamento della catena di significazione parco/cinema/immaginario già evidente nel primo capitolo), ma di come ogni idea visiva, ogni sequenza d’azione, ogni apertura dell’immaginario rimandino tutte a un già visto in Jurassic Park.
Quanto l’immaginario di Steven Spielberg, e di tutto il cinema che ne è derivato, non sia più qualcosa di meravigliosamente libero e stupefacente potrebbe essere ben rappresentato dal ruolo svolto dal protagonista Owen Grady (interpretato da Chris Pratt), addirittura un addomesticatore di Velociraptor le cui capacità saranno decisive per lo scontro finale tra dinosauri e esseri umani, in una sequenza che è insieme calco e ribaltamento del finale di Jurassic Park.
Controllare un Raptor significa sminuirne il potenziale, non come animale ma come segno autonomo dell’immaginario collettivo, riconducendo il tutto sotto il dominio dell’uomo. Non più libere forme animatroniche prima e digitali poi (Jurassic Park fu anche una tappa decisiva in questo percorso) capaci di mescolarsi autonomamente in un mondo informatizzato e liquido, ma il ritorno a una concezione antropocentrica, dove l’interesse dell’autore/produttore è da un lato la celebrazione del proprio immaginario (qui abbiamo addirittura una visita sul set del primo Jurassic Park), dall’altro la messa in scena di uno scacco creativo e la riflessione masochistica su un mondo e un modo di pensare il cinema ormai sterile e destinato all’estinzione.
Non è casuale che la mancanza più evidente in Jurassic World sia l’uso consapevole del sense of wonder spielberghiano, un qualcosa che non basta replicare con il suo correlativo oggettivo (i celebri travelling in avanti sui primi piani dei protagonisti) ma che dovrebbe informare la struttura stessa del film. Una delle tante sequenze memorabili di Jurassic Park riguardava proprio il primo incontro tra i protagonisti e i dinosauri nella vallata, dove l’apparizione degli animali era continuamente rimandata e rimbalzata tra i primi piani colmi di meraviglia dei protagonisti/spettatori. In Jurassic World non c’è più posto per questo, i dinosauri appaiano da subito, sono dati per scontati ormai.
Il cinema di Spielberg regista è da tempo cambiato, si è spostato su altri territori (da una parte la rappresentazione della Storia, dall’altro l’utilizzo dei generi non più come geniale parco di divertimenti ma come cupa riflessione sul presente) rendendo la sua filmografia ancora, straordinariamente, produttiva.
Il cinema di Spielberg produttore invece continua spesso a riproporre idee filmiche che lui stesso ha abbandonato nel 1993; tuttavia bisogna dar atto a lui e al suo regista Colin Trevorrow di aver creato con Jurassic World un meccanismo che è insieme sia un divertente spettacolo sia (attraverso la palese derivazione di ogni sua immagine) una riflessione su quanto sia improduttivo e vuoto questo stesso spettacolo. Una sorta di consapevolezza del preoccupante stato di salute dell’immaginario collettivo statunitense che in pochi hanno il coraggio di ammettere a Hollywood.