Ieri/oggi - Tornare a "Strange Days"

di Kathryn Bigelow

Indizi visivi per il decennio in partenza: fare pace con il cyberpunk, ripartire da Strange Days

Strange Days recensione film Bigelow

[La storia del cinema non è un corpo morto ma un motore vivissimo. I film ci guardano e continuano a parlare, dal giorno della loro uscita ad oggi, arricchendosi del tempo che passa e della realtà che cambia. "Ieri/oggi" è una rubrica che nasce per valorizzare questo dialogo, riscoprendo film seminali e quanto ci dicono oggi sul presente].

Destoricizzare prodotti culturali del passato e ricollocarli a calci nel contesto sbagliato è un classico della critica pigra. Ci sono casi però in cui il confronto esteso con il presente è addirittura obbligatorio; film spesso insospettabili, che a differenza di altre opere “urgenti” a scadenza mensile, chiedono di essere ritirati fuori in continuazione, anche a distanza di decenni, come fossero perennemente in uscita il prossimo weekend.
Nel 1998, il Moretti all'apice della sua fase masturbatoria post-Apicella sfotteva un recente mega-flop di Kathryn Bigelow, in una delle sue celebri filippiche contro il cinema di genere americano. Le classiche frecciatine passivo-aggressive del regista, in un film campionario dei leitmotiv tardo-morettiani (la mamma, il figlio, Berlusconi); tutti talmente urgenti, talmente politici, che oggi di Aprile non resta segno alcuno. Di Bigelow invece?
Quindi, Strange Days, 1995 oppure 2020. Ralph Fiennes e Angela Basset a Los Angeles: polizia militarizzata, guerra civile incombente, un omicidio razziale; una misteriosa nuova tecnologia governativa che lo ha ripreso involontariamente, e sul futuro della quale si decideranno le sorti della società nascente.

Ora: è quantomeno sospetta la recente prolificità dell'industria cinematografica americana nell'affrontare il tema della police brutaliy. Dagli anni di Strange Days, quanti film, quante serie sono state prodotte, a condannare la violenza delle forze dell'ordine USA? Covid permettendo, c'è da scommettere siano già in produzione decine di opere programmaticamente “ispirate” alla vicenda di George Floyd o altre mostruosità analoghe, da Breonna Taylor a Freddie Gray. Con il solito modus operandi: mettere in scena sbirri-mostri ringhianti, bavosi e caricaturali, e spostare così il senso dei riots su dinamiche morali-idealiste di buoni e cattivi.
Più che un'avvenuta presa di coscienza militante delle grandi major, questa sensibilità al tema andrebbe ricondotta alla componente rassicurante e reazionaria che sottintende queste rappresentazioni. La rappresentazione in sé sembra in effetti l'unica forma di prassi politica progressista concepibile oggi nella patria del liberalismo; dare visibilità alla propria causa attraverso la commercializzazione mediatica e spettacolare (da parte delle stesse classi dirigenti teoricamente chiamate in causa), minimizzando quelle problematiche strutturali che non si ha nessun interesse a mettere in discussione. È la maniera più conservatrice di essere riformisti, e inevitabilmente la più hollywoodiana; “rappresentare”, farsi pagare, tirarsi fuori dall'equazione con l'immagine immacolata.

È una trappola quindi spingere verso un recupero di Strange Days in quanto “film Black Lives Matter”. Tutta Hollywood twitta BLM, come tutti twittano contro Trump, l'inquinamento o la povertà: non è un valore di per sé. Facendo del capolavoro di Kathryn Bigelow un qualche vessillo da college campus privato, il suo slancio futurista finirebbe inevitabilmente cestinato in questa florida corrente di cinema politico-utopistico molto democratico, molto liberal e molto anti-insurrezionalista; quello che “violenza genera violenza”, “protestiamo pacificamente”, “l'unica arma è l'amore”.
Il suo impeto pseudo-sovversivo è in fondo sintesi perfetta di quell'anti-capitalismo performativo che in tempi non sospetti il solito Zizek rinfacciava al povero James Cameron (autore del trattamento e del lorebuilding di base), con l'esempio di Titanic: concepire lo scontro di classe americano quale mezzo per il miglioramento morale delle classi dominanti, veicolato dall'incontro con un “popolo” idealizzato, votato alla subalternità e magari al sacrificio finale. Cos'è il (bellissimo) finale di Strange Days se non la messa in pellicola di questo intero discorso, con Vincent D'Onofrio e William Fichtner, sbirri razzisti e corrotti, alfine incastrati e giustiziati dalla polizia militare “buona”, ora pronta a ricondurre all'ordine le masse rivoltose con una rinnovata fiducia nell'autorità?

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Buttandola sul contenutismo spicciolo, Strange Days si beccherebbe dunque il bollino di reazionario. Ma un film è un film, non il suo soggetto, e quello che il capolavoro di Bigelow dice lo rivela ovviamente la forma.
Strange Days non può diventare oggi il manifesto BLM, come non riuscì ad esserlo per le rivolte del '93 e di Rodney King. Il suo oggetto è invece George Floyd stesso; precisamente, il punto d'incontro tra rabbia sociale, tecnologie del controllo e mercato dell'attenzione che il suo omicidio rappresenta. Temi questi già propri del vecchio cyberpunk letterario di trent'anni fa, come di tutta la sua controparte critico-filosofica (Baudrillard, Lyotard): teorie allegramente date per obsolete dalla gioiosa rivoluzione digitale, e che ora si è costretti a ritirare fuori mentre il mondo prende forma attorno ad esse.
Nel recupero di queste suggestioni applicate al bollettino di nascita del nuovo millennio, Strange Days è forse l'unico film occidentale veramente cyberpunk di qua di Blade Runner; l'unico capace di sfuggire il patinatismo che bene o male infettò gli esperimenti di Andrew Niccol o Robert Longo (per tacere di Matrix, gradevole pastiche di suggestioni altrui oggi riprogrammato come improbabile metafora queer tra Judith Butler e meme brutti), e quasi sicuramente l'unico kolossal in live-action rilevante in un sottogenere segnato sopratutto dai lavori ultra-indipendenti dei giapponesi matti Shin'ya Tsukamto, Shogin Fukui e Sogo Ishii.

Prima della Fine della Storia, un tempo non lontano il Cinema e i film si beavano ancora di poter fermare la realtà, sottrarla al vortice infernale dei simulacri. Già prima di Strange Days, nell'action classico era un motivo ricorrente: rivela al mondo l'immagine del villain e, come un conflitto rimosso, capitolerà una volta portato alla luce della coscienza pubblica. In L'implacabile (1987), il pubblico-popolo insorgeva e decretava la sconfitta di Killian nel momento in cui Arnold ne smascherava le malefatte via cavo: ogni manipolazione cadeva nel momento in cui la cinepresa era lì, e riprendeva.
Altri tempi: “In realtà non funziona così,” commentò sconsolato Steven de Souza qualche anno fa, a proposito di quel finale. “Oggi vediamo i filmati, ascoltiamo le registrazioni, ma nulla ci fa effetto”. Il cinema, i film, le macchine da presa: tutta strumentazione desueta, retaggio di un secolo pittoresco e feroce. E ora, l'estate 2020 ribalta tutto ancora. Ha ragione l'uomo di Die Hard e Commando: le immagini degli orrori politici esulano dalla sfera d'influenza del singolo. Ma quelle del quotidiano, abbiamo scoperto, ci toccano ancora.

Se Strange Days è il film del 2020, allora lo SQUID sarà il social media visuale del decennio in partenza. Altro che Youtube e Facebook, roba già vecchia: l'interpassività delle vite altrui vissute in soggettiva, uscita dalle distopie nineties e dall'estetica Mtv, è oggi parte delle più comuni forme di socialità e di intimità quotidiane. Sempre (a torto) accusato di nichilismo ed estetica dell'orrido, Strange Days è quindi in fondo un film social-positive, ovviamente senza neanche saperlo. È la “speranza” costantemente evocata da Kathryn Bigelow, lei sì, veramente fiduciosa nei lumi e nel Nuovo tecnologico; sia questo una nuova piattaforma comunicativa, uno SQUID fantascientifico, o le micro-steady ultrastabilizzate costruite esclusivamente per il suo film, che l'autrice racconta con entusiasmo contagioso nei commenti audio dell'unica, preistorica edizione home video al momento in commercio (aspettiamo fiduciosi).

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Ma la retorica tecno-utopistica va guardata con sospetto. La propaganda sui social media muta come una sostanza gassosa a seconda dei poteri tirati in causa, e così la percezione di questi nuovi Behemoth dell'informazione: nuovi scintillanti baluardi dell'emancipazione liberale contro i nemici dell'Occidente (le amatissime “rivoluzioni di Twitter”, ovviamente inesistenti in questi termini), oppure incontrollabili mostri tentacolari da imprigionare? Nella visione essenzialmente ottimistica di Bigelow e Cameron, la soluzione non è la distruzione di questi sistemi, quanto il loro hackeraggio; lo SQUID è un'arma di controllo federale (surveillance capitalism, se vogliamo) ma anche strumento di presa di coscienza una volta introdotto e democratizzato attraverso i mercati neri. Il millennio che apre (su una chiusa anni '40) sarà di chi imparerà a controllarlo.

Mettendo Strange Days a confronto rigoroso con il 2020, certi altri succosi aspetti del film perdono ingiustamente interesse: dal triangolo noir (che Cameron voleva al centro del film, con Bigelow a spingere sull'intreccio politico), all'evoluzione del linguaggio tecnico dell'inseguimento a piedi (autentica arte marziale registica che con l'autrice aveva già toccato il vertice storico in Point Break), e ovviamente l'estetica e il worldbuilding curato da Ellen Mirojnick, Lilly Kilvert e Kara Lindstrom. Ma quello formalistico è un discorso che prescinde da questo tipo di lettura.
In quanto sci-fi politico vero, il capolavoro di Bigelow non si impone di testimoniare una realtà oggettiva (impossibile proprio ontologicamente), né ne delira una versione ripulita e pubblicitaria a uso dei consumatori (che semmai è conservatorismo); quello che fa è prendere le tesi del suo presente e suggerirne una sintesi nuova, in proiezione. Inserire un elemento originale nel discorso utilizzando immagini anziché parole: la ragione per cui un film popolare, con buona pace di Michele Apicella, sarà sempre la forma espressiva più efficace nell'esprimere una possibilità. Perché la sua proposta è visuale, non verbale; tangibile, e non teorica. Se una volta pareva indecifrabile, la soggettiva impazzita di Strange Days oggi è impossibile da fraintendere. Storta, lurida e sgranata, diventa costantemente più lucida.

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 19/08/2020

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