Night Moves
Un dramma dagli echi dostoevskiani dove all’elaborazione di una tragedia inaspettata si accompagna il progressivo slittamento in un mondo notturno da incubo.
Giunta al quinto lungometraggio Kelly Reichardt continua il suo lavoro di mappatura dei territori dell’Oregon, tornando però alla contemporaneità dopo la parentesi western di Meek’s Cutoff, che descriveva il viaggio dei pionieri attraverso la wilderness.
La prima inquadratura di Night Moves pare scaturire direttamente dal film precedente: una sorta di sogno/incubo, con l’acqua della diga che sembra da un lato un miraggio della modernità e dall'altro simbolo del desiderio di ritorno alle origini dei protagonisti, gruppo di ambientalisti radicali composto da due ragazzi e una ragazza che pianificano la distruzione di una diga in quanto simbolo dello sfruttamento delle risorse naturali e del consumo di energia. Un andirivieni tra passato e presente soltanto evocato che però sembra sfondare la dimensione temporale e trasformare il perdersi senza meta dei personaggi reichardtiani in un moto interiore fatto di senso di colpa e di impossibile ricerca di espiazione.
Dalla teoria alla prassi fino alle conseguenze materiali e morali dei propri gesti: il film si apre, come sempre nell’opera della regista, nel pieno dell’azione, ovvero quando manca solo un giorno all’attentato terroristico. La prima parte mostra i tre mentre definiscono gli ultimi dettagli decisivi (l’acquisto di una barca a motore e del fertilizzante con l’ammonio, lo scambio di identità) e poi attuano il piano, che li vede impegnati di notte ad attraversare un fiume fino a raggiungere la superficie della diga. In questa porzione la regista lavora sulla tensione in modo magistrale: accompagna i corpi nel loro movimento perlustrativo alternando soggettive, lenti movimenti di macchina e un tappeto sonoro minimale e allusivo. Successivamente contrappone piani ravvicinati a campi lunghi lavorando sulla giustapposizione tra primo piano e sfondo, tra le figure umane e l’ambiente circostante, solo apparentemente inabitato, e lasciando al fuori campo larghe porzioni dell’immagine che si riveleranno poi decisive. Ancora una volta è il paesaggio l’elemento centrale della poetica della regista. Un paesaggio contaminato dalla tecnologia e dalla modernità, sfruttato dagli uomini come fonte di guadagno e risorsa energetica. A ben vedere il fine ultimo dei personaggi sembra essere quello di riportare l’ambiente alla sua naturale purezza, sogno, questo, impossibile che avrà pesanti ricadute sulle esistenze dei tre, condannati, nella seconda parte dell’opera, alla fuga e alla trasparenza, ad essere corpi fantasmatici emarginati dalla comunità. Destino peraltro preannunciato nel gioco delle false identità che i tre mettono in piedi durante le fasi preliminari dell’attentato e che poi si rivela irreversibile: una volta compiuto l’insano gesto i tre non riescono più a tornare alla quotidianità.
È in questo momento che il film si trasforma in una sorta di dramma dagli echi dostoevskiani dove all’elaborazione di una tragedia inaspettata si accompagna il progressivo slittamento in un mondo notturno da incubo. Passiamo dalla dimensione esteriore, nel rapporto tra centro e periferia dell’immagine, tra figura umana e paesaggio, a una interiore quasi impenetrabile che trasporta il film in territori sottilmente hitchcockiani. Nella sequenza della biblioteca (vero e proprio turning point del film) la macchina da presa si libra in aria schiacciando Josh e mostrando con plastica evidenza lo stato di tensione e di debolezza del personaggio, castrato nella sua condizione di cecità. Nonostante le molteplici soggettive che la regista gli attribuisce soprattutto nella prima metà del film, e nello specifico durante la sequenza dell’attentato, egli non è più in grado di controllare la situazione, non riesce e non sa più vedere. L’enorme massa di invisibilità dell’immagine notturna inghiotte la vittima e con lui gli altri personaggi costringendoli a vagare alla cieca, ad attraversare, senza più direzione, gli spazi anonimi del paesaggio americano, e infine a guardare con terrore verso il fuoricampo attraverso uno specchio in attesa che si compia il proprio destino.