Bussano alla porta
Punto d'incontro tra la prima e seconda parte della carriera di Shyamalan: un perfetto meccanismo di genere in cui la serendipità umanista di un tempo diventa urgenza del sacro nei confronti dell'altro, di uno sconosciuto che non riconosciamo ma che comunque, forse, siamo chiamati ad ascoltare.
«Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing»
Già vent’anni fa M. Night Shyamalan raccontava la fine del mondo in una stanza, nella fattispecie una fattoria nel mezzo dei campi di grano, in Pennsylvania. Si trattava di una famiglia sotto assedio, con alieni giunti dall’oltre in guerre dei mondi appena più in là dell’orizzonte, e la televisione sullo sfondo a certificare l’invasione, infografiche e filmati amatoriali per un nuovo undici settembre. Siamo nella prima fase della carriera di Shyamalan, quella che fino a E venne il giorno (sottovalutato e sempre da difendere) trova sé stessa da di dentro di contorni apertamente spielberghiani, tra unità famigliari da ripristinare e verità rivelate affidate ai più piccoli, agli inascoltati e gli outsider, custodi ultimi di quel sesto senso che solo permette di vedere. E di lì credere, perché – e questa è una costante che ritorna nel suo cinema di oggi e informa tutto Bussano alla porta – ogni linea del nostro sguardo, ogni gesto di contatto e desiderio è questione di fede, di credere in qualcosa di più che ritorna e permette e giustifica. Quel qualcosa in cui tutto trova un posto e che dà un senso alle azioni di ciascuno. Verità rivelata, mistica dell’immagine. Per questo la salvezza in Signs è solo parte smarrita dell’anima famigliare, è un Verbo da riscoprire nelle relazioni interne, disperso tra le mille spire di un destino che si sbriciola con apparente casualità ma nei fatti sensato, millimetrico.
Oggi però, in una seconda fase di carriera che al controllo assoluto della forma accompagna una vicinanza al genere più immediata, finanche sanguigna e orrorifica, il Verbo non è più appannaggio dei più piccoli, come un tesoro nascosto nel giardino di casa su cui sempre abbiamo costruito e vissuto senza accorgercene. Il sesto senso ora è questione di terra straniera, è appannaggio dell’altro che vive lì fuori, nella landa selvaggia e spesso inospitale, e accoglierlo in casa non significa più rimettere a posto i pezzi, chiudere il cerchio e trovare un senso, bensì porsi in ascolto di profeti improbabili fautori di parole inenarrabili, incoglibili. La salvezza è sempre questione di fede ma adesso veste l’abito del sacrificio: il fedele non è più solo colui che vede, ma chi accetta di uccidere o di essere ucciso. Bussano alla porta pullula di visioni scomposte perché i riflessi della sua luce sono epifanie concesse allo straniero mentre a noi si chiede di credere sulla base più umana del caos, del dolore per una richiesta incomprensibile. Il sacrificio ultimo di Isacco, in nome di una forza illeggibile e crudele.
Adattamento del bel romanzo di Paul Tremblay (contenente tanti degli stilemi di Shyamalan ma comunque riassemblato), Bussano alla porta è una magistrale lezione di cinema, l’ulteriore esempio di un autore che come pochi si dimostra capace di bilanciare personaggi, meccanismo narrativo e aderenza al contemporaneo. Lungi dall’essere regista entomologo, verticale rispetto a situazioni e caratteri, Shyamalan si ritrarrà pure nelle vesti di demiurgo, di fotografo hitchcockiano nascosto dietro il suo teleobiettivo (il ruolo da assassino in Signs, il cameo testimoniale di Old) ma nei fatti è sempre immerso nella carne e sangue delle sue storie e dei suoi drammi, partecipe delle sue agnizioni, persino di quelle affidate a figure limite come i quattro profeti di Bussano alla porta, incarnazioni dell’umano oltre – se non attraverso – la loro goffaggine e incertezza e disperazione. Insomma sempre un cinema umanista, servito da uno sguardo registico che ormai è in grado di far quel che vuole di corpi attoriali e spazi scenici, tempi narrativi e intensità tensive. Il controllo formale di un film come Bussano alla porta lascia senza fiato, con la gola stretta da una morsa e gli occhi spalancati su primi e primissimi piani con cui anche la più improbabile delle situazioni si carica di peso drammatico dolentissimo e struggente. Empatia ed emozioni rimbalzano tra le due sponde del racconto, tra profeti e vittime sacrificali, e come loro ci sentiamo schiacciati da una situazione che parla sottotraccia la lingua della pandemia e dell’infodemia, tra Lockdown e post-verità, il Verbo affidato a chi entra nelle nostre case e nei nostri schermi per chiederci di sacrificarci affinché il mondo sopravviva.
Un cinema che fa il giro, abbandona le vesti dell’infante e del puro, dell’ingenuo innocente, e ci chiede di credere piuttosto all’iracondo, allo spaventato, all’incomprensibile, nonostante sembri tutto un piano inafferrabile e inutilmente sadico che sfugge al nostro controllo. Covid-19 e antico Testamento sono forme diverse dello stesso mistero di fede, geometrie limite del nostro controllo e della nostra comprensione, della condizione umana. Il sesto senso di un tempo, forma di serendipità umanista, diventa oggi la favola raccontata da un idiota, colma di suono e furore, significante nulla. A noi non resta che scegliere.