The Halt

di Lav Diaz

Approdato su Mubi, The Halt si configura come l’ennesimo, puntuale gesto militante e morale dell’autore filippino, proiettato stavolta in un futuro dominato dal buio della dittatura, e dove il sole è letteralmente scomparso

the halt - recensione film lav diaz

Un arresto, una fermata, dice il titolo dell’ultimo Lav Diaz prima di Genus Pan (2020), The Halt (del 2019, ora su Mubi), appunto. Se non conoscessimo un poco l’autore, potremmo concludere che si tratti di una cesura, uno scarto col cinema del passato; ma a ben vedere tanta parte della grande produzione dell’autore filippino gioca con una terminologia che dà luogo a delle liminalità, come quelle temporali di From What Is Before (2014) e spaziali di The Woman Who Left (2016), o persino crasi delle due in Norte, The End of History (2013) e più subdolamente in Prologue to The Great Desaparecido (2013), che dice insieme di un inizio e di una sparizione geografica. Ma potremmo aggiungere altre evidenze, più concettuali, di zone limite, come gli spazi oscuri del sonno (A Lullaby to the Sorrowful Mystery) e della morte (Death in the Land of Encantos e Season of the Devil). Tutto racconta, insomma, di passaggi cruciali, tracce che hanno determinato un prima e un dopo nella storia delle Filippine. E se allora una novità c’è nel cinema extra-large di Lav Diaz, la troviamo in una proiezione nel futuro di questi passages.

The Halt immagina una distopia in cui, nel non troppo lontano 2034, il sud-est asiatico è piombato nelle tenebre a causa di una gigantesca eruzione vulcanica. Una coltre di nubi cineree ha nascosto la luce del sole per anni, e nelle Filippine questa lunga notte s’è fatta pure politica, con una figura dittatoriale fuori di testa impostasi col pugno di ferro e un approccio populista. Lav Diaz non si è dovuto spingere troppo in là con l’immaginazione, perché del resto gli eventi sono all’incirca riflessi di quanto raccontato in From What is Before e altri, con l’imposizione della legge marziale negli anni '70 per mano di Ferdinand Marcos. Il passato non è poi così dissimile dalla politica dell’attuale presidente Rodrigo Duterte, e viene facile proiettare nel futuro queste immagini note al regista filippino.

Nell’assetto corale dei personaggi principali, spicca la figura del nuovo, psicolabile dittatore, Nirvano Navarra, dominato da capricci infantili e dalla convinzione di una discendenza divina, dunque da una missione celeste di rivalsa del proprio popolo. Nulla di nuovo, se non l’inserimento di una tessera che permette alla mitomania di quest’uomo, elevatosi a portavoce degli dei, di dilagare incontrastata: il popolo è vittima di una perdita di memoria che impedisce il recupero nitido delle immagini del passato. Senza una memoria storica, anche il dialogo col presente ne esce avulso, inconsistente. Le sacche di resistenza non producono risultato alcuno; anzi lungo le oltre quattro ore e mezza del film vengono divelte a suon di blitz ed esplosioni, date persino in pasto ai coccodrilli del dittatore, come l’intellettuale Jean, rea di essersi impegnata nella stesura di saggi sul recupero della memoria del popolo.

Come aveva a dire Daney, il cinema è un gesto, una presa di posizione inevitabilmente politica, ha con sé una dote e una responsabilità morale. Lav Diaz tiene a questa moralità, impegnandola sempre nei suoi piani sequenza monolitici per fissità e lunghezza, quindi addensati e addossati di responsabilità. L’inquadratura della lunga notte filippina, vestita da futuro solo per un cospicuo numero di droni di controllo, è inevitabilmente segnata da un’immersione nel buio ben più marcata della produzione precedente, con sacche di luce che ritagliano i personaggi in spazi minimi e ottundenti anche quando girati all’aperto, nelle vie di Manila. È nel buio che l’eroe della resistenza Hook tenta di riconoscere ciò che è giusto fare, tra guerriglia urbana e altre forme di responsabilizzazione, mentre perde pian piano la vista. È nel buio dell’appartamento e ai piedi di una lapide che l’ex professoressa di storia Haminilda, ora prostituta, cerca di recuperare la memoria della sua famiglia, cancellata da un virus che nasconderebbe in realtà una gigantesca purga governativa mediante gas velenosi. È nel buio che il cattolico Padre Romero nasconde i ribelli e vomita ingiurie contro Navarro; ed è sempre lì che, davanti alla pira funeraria di un bambino morto di fame, dunque di fronte alla luce, dei ragazzini fissano il proprio sguardo, come a ricercare una fede a cui agganciarsi per il futuro.

Lo comprende Lav Diaz e lo comprende anche il suo eroe, Hook. Se i bambini non hanno più traccia del passato burrascoso che ha segnato la storia delle Filippine, dal nostro tempo col presidente Duterte fino alla venuta messianica di Navarro, possono allora essere formati da zero, imparare a riconoscere il bene dove lo vedono e farsi promotori di una rivoluzione bianca. Puntare lo sguardo sul falò, sulla luce, mentre tutto attorno nell'inquadratura è sempre nero. Specie se il presidente, a un tratto, viene pestato a sangue per strada; lui, non riconosciuto nonostante la sua gigantografia campeggi per tutta la metropoli e scambiato, guarda caso, per un pazzo maniaco. L’immagine più bella della lotta al buio della Storia, del resto, è proprio quella di un ragazzino che il gigantesco stendardo caduto con il volto di Navarro lo raccoglierà e lo consegnerà a un povero sconosciuto: non importa la raffigurazione del dittatore, anche una cattiva immagine può diventare una copertura contro la pioggia, un tetto sulla testa.

Autore: Andrea Giangaspero
Pubblicato il 01/09/2021
Filippine 2019
Regia: Lav Diaz
Interpreti: Hazel Orencio
Durata: 276 minuti

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