Alex De la Iglesia è tornato. E con lui il suo bazar di follie, esagerazioni, umorismo demenziale. Il talento del regista spagnolo rimane fuori discussione: sono pochi, tra i cineasti contemporanei che si confrontano con il cosiddetto cinema di genere, ad avere un simile controllo dell’immagine, ad avere la sua capacità di giocare con la babele di freaks, personaggi bizzarri, violenza e umorismo che mette in scena di volta in volta. In Le streghe son tornate(Las brujas de zugarramurdi), De la Iglesia si confronta con il mito delle streghe, mettendolo a confronto con uno scalcagnato gruppo di rapitori che ha appena compiuto un furto di fedi nuziali. Le intenzioni del regista sono evidenti: una satira surreale e delirante sui rapporti di coppia contemporanei, un’opera tutta al femminile, dove gli uomini sono delle marionette in perenne balia di desideri e pulsioni delle varie mogli, amanti, streghe. Già dalla prima sequenza riconosciamo lo stile del regista, scatenato nella messa in scena di una rapina in banca organizzata da un gruppo di artisti di strada: icone della cultura di massa, dei cartoni animati, della pubblicità, liberamente accostate a un Cristo dolente con il cellulare nascosto nelle mutande, e tutte coinvolte in una rapina ridicola e surreale.
La brujas de zugarramurdi si muove all’interno di una curiosa via di mezzo, propria di molti lavori del regista: spesso nei suoi film troviamo un’assoluta prevalenza del lato ironico, parodistico e demenziale rispetto agli infiniti altri aspetti che un film di genere potrebbe avere. Come se il bisogno di essere costantemente sopra le righe fosse per De La Iglesia piú forte di qualunque discorso legato alla tensione, alla paura, al melò, alle emozioni sincere e dirette che un film può dare. Dall’altra parte il regista sembra troppo preoccupato dal significato dei suoi film, dalla metafora che per forza deve essere trovata nel suo cinema. Strano equilibrio, capace quindi di alternare geniali e brillanti coreografie di forme e corpi nello spazio, alla necessità di dare poi un senso a tutto questo caos, di evidenziare il suo voler parlare d’altro, come se De La Iglesia avesse timore di creare “soltanto” un grande spettacolo.
Succedeva con l’acclamato Ballata triste de trompeta on la Guerra Civile in Spagna, succede in Le streghe son tornate con il sempre più alto numero di crisi coniugali e con i mutamenti nei rapporti di coppia contemporanei. Il cinema di De la Iglesia si trova quindi in una sorta di terra di nessuno, schiacciato tra Sam Raimi e John Carpenter: dal primo discende il gusto per l’horror parodico, per i corpi umani trattati come cartoni animati, per l’eccesso figurativo; dall’inarrivabile regista di La cosa il tentativo di dare uno spessore – politico, sociale – al suo cinema. Peccato perché a De La Iglesia basterebbe calibrare un minimo il suo umorismo, limitare la sarabanda tra i generi (qui sono il poliziesco parodico nella prima parte, l’horror demenziale nella seconda), perché diventasse davvero ciò che Raimi o Jackson non sono più: cinema di genere dopo la morte dei generi, puro gioco tra corpi, colori e forme. O, se volesse fare sul serio, potrebbe diventare un nuovo classico, un piccolo Michael Mann o, appunto, Carpenter.
Non sappiamo se questa sorta di sua indecisione sia dettata da una cattiva elaborazione di alcuni diktat postmoderni (gusto della citazione, parodia dei generi, pastiche), ma così il regista di El día de la Bestia sembra condannato a rimanere in una sorta di media distanza, e incapace, può sembrare paradossale, di portare fino in fondo i suoi eccessi. Come se il suo gusto visivo non riuscisse mai a liberarsi del tutto da una sorta di ratio intellettuale che ne imbriglia l’estro e la creatività. Se soltanto De La Iglesia si prendesse un po’ più sul serio (tornando a credere a un cinema di primo grado, emozionante e sincero) e allo stesso un po’ meno sul serio (il bisogno di giustificare narrativamente i suoi eccessi) diventerebbe finalmente un grandissimo regista.