Da Fertile Memory che Michel Khleifi realizzò nel 1980, donando al cinema altri occhi, a The Time that Remains di Elia Suleiman. Passando per Ticket to Jerusalem, Jenin Jenin, Thirst, Rana’s Wedding, Pomegranates and Myrr, Frontiers of Dreams and Fears… Ancora una volta l’Europa del Festival di Lecce diventa altro, un altrove, uno sguardo più lungo, l’anno scorso sul cinema israeliano, quest’anno – come a voler proseguire il discorso – su quello palestinese, quello di Hany Abu-Assad e Rashid Masharawi, di Mai Masri e Mohammed Bakri, di Annemarie Jacir e Najwa Najjar, Tawfik Abu Wael, Alia Arasougly ed altri. Il cinema del nuovo millennio, del presente, di cineaste e cineasti di generazioni diverse, 6 film di finzione, 6 documentari e altrettanti cortometraggi. E incontri, con la regista Sahera Dirbas (Stranger in My Home,Jerusalem) e May al-Kaila, ambasciatrice palestinese, mentre gli attesi Khleifi, Masharawi e Bakri non ce l’hanno fatta, purtroppo, a essere presenti. Abbiamo incontrato Monica Maurer, curatrice della Settimana del cinema palestinese.
Quali sono le caratteristiche fondamentali della rassegna e gli incroci tra i film?
L’idea era quella di effettuare, attraverso le forme del cinema, una carrellata sulla realtà palestinese, mostrarne il volto che i media spesso nascondono o trasformano in narrazione negativa. I film, nel loro insieme, ci dicono della complessità della realtà palestinese. E del conflitto con Israele, il Muro e gli insediamenti, dei movimenti interni alla società, delle donne, delle divisioni generazionali, dello scontro fra una visione del mondo conservatrice e un’altra più aperta. È una realtà che cambia, e anche il cinema che la racconta è mutato nel tempo, sino ad apparire oggi sempre più attento a cogliere le diverse sfumature, a cercare la persona, a raccontare con il “noi” anche “l’io”.
E quali sono le condizioni in cui si muove il cinema palestinese da un punto di vista più strettamente produttivo? Ci sono delle cifre sulla quantità dei film realizzati negli ultimi anni? Esistono strutture di sostegno economico?
Cifre in realtà non ce ne sono, è difficile raccogliere dati precisi. La Palestina ha un Ministero della Cultura, ma è una struttura piccolissima, come si può immaginare, e sostanzialmente quello che offre non va oltre un mero sostegno logistico, l’audiovisivo non è certo una priorità. Per il cinema una via sono i finanziamenti dall’esterno, le coproduzioni internazionali, l’altra è quella delle produzioni indipendenti, praticata soprattutto dai registi più giovani per evitare di subire “dall’alto” decisioni e condizionamenti.
Quanto comunicano fra di loro le immagini del cinema palestinese e quelle del cinema israeliano?
Inevitabilmente ci sono alcuni punti di contatto, il cinema riesce a creare delle zone di incontro. Ci sono anche delle collaborazioni tra registi, Mi viene in mente, ad esempio, Route 181, di dieci anni fa, girato da due autori straordinari come Eyal Sivan, israeliano, e Michel Khleifi, che è palestinese.
Dove e come si vede il cinema in Palestina?
Le sale sono pochissime. Già nel 1948, l’anno della Nakba, della “Catastrofe”, dell’esodo di 800.000 persone dalle loro terre, i palestinesi persero le loro terre, le loro case ma anche le lo strutture culturali, la possibilità di fare cinema e di vederlo. Ancora oggi l’obiettivo è quello di colpire la cultura, la memoria, le radici dei palestinesi. Restano, però, quelle persone che sono veri e propri militanti della cultura, che mostrano il cinema nelle università, nei cineforum, luoghi di resistenza culturale. Ci sono anche i festival del cinema, e questo è molto importante.