“Dio mi ha portato lontano da qui.
Semplicemente persi, c’eravamo solo io e te.”
Così vicini così lontani. Sedotti e innamorati, felici forse. Amanti che giocano, dimentichi di tutto il resto, per divenire soli insieme. Come se non ci fosse più niente o nessuno intorno. Lui e Lei, non più soli, per sempre soli. Si tratta della storia più dolce e antica del mondo: una storia d’amore. Semplice e genuina, sincera ed autentica, racconta i suoi amanti con l’affetto e la tenerezza di chi ha voluto bene, di chi ha saputo amare: l’umanità narrata da Spike Jonze, da quest’ultimo Spike Jonze, è buffa e toccante, tanto fragile quanto commovente, perfino ridicola nel suo tentativo disperato di sentirsi un po’ meno sola; di poter ricominciare ad amare, a guardare il mondo e ad emozionarsi, a turbarsi, a eccitarsi per ogni piccola, insignificante visione. Che sia anche l’ultima delle sciocchezze. Anzi, che sia soprattutto quella. “Tu mi hai svegliato” dice Theodore alla sua Samantha (creata dalla voce sensuale di Scarlett Johansson). Ma lei è diversa dalle altre, eppure sembra comprenderlo meglio di chiunque: si tratta di un sistema operativo avanzato, un occhio, una voce e una coscienza femminili capaci di crescere con l’esperienza, di desiderare e di volere, di soffrire e di amare. Un’intelligenza artificiale in grado di scoprirsi come un sé, entità autonoma, desiderosa di conoscere il mondo, di vivere e di essere (anche se la propria casa è un computer). Contro ogni apparenza Lei è un film che viaggia controcorrente rispetto a una tendenza attualissima volta a raccontare la morte dell’humanitas e la fine delle relazioni interpersonali. E’ sorprendente infatti come questa relazione fra uomo e macchina non sia affatto sorprendente: per Theodore non c’è nulla di strano, niente di bizzarro o anomalo, per lui Samantha è vera, fin dal principio. Anzi, Jonze si spinge ancora oltre: questo sistema operativo acquisisce esperienza a un livello così intenso da divenire perfino più umano dell’uomo stesso. Lo supera esponenzialmente. In questo modo Jonze non prende posizione contro il virtuale, non racconta svolte epocali, tramonti generazionali o dimensioni embrionali, crea semplicemente un ponte, un terreno di convergenza: normalizza il virtuale. Il corpo non manca, semmai è Samantha a mancare il corpo – il suo pensiero è ubiquo, liquido, può essere sempre e ovunque. Il suo desiderio è quello di imparare, comprendere e vedere le cose del mondo. Theodore scopre in lei quella bambina capace di entusiasmarsi per tutto (“Adoro il modo che hai di guardare il mondo”), ma anche l’amica con cui confessarsi, la donna da desiderare, con cui viaggiare e saper vivere una nuova, autentica giovinezza.
Lei è dunque lontano da orizzonti cupi e distopici: siamo nel mondo dove i videogiochi hanno squarciato quarte pareti ma non siamo, ancora, nel mondo divenuto videogioco. La tecnologia ha reso tutto più semplice e gradevole, ma ha anche riportato l’uomo alla sua condizione (e al suo destino) di solitudine. Se ogni nuova protesi, se ogni nuova macchina, può fare a meno del supporto, si protende verso un regno d’invisibilità e immaterialità. Ancora: se i sentimenti non hanno carne perché sono extracorporei, astratti e misteriosi, allora perché dovrebbero averla i loro soggetti? E’ possibile immaginare un mondo in cui l’individuo si spogli del corpo divenendo puro sentimento? Il sistema operativo rappresentato da Samantha mira esattamente a questo. Theodore, invece, è pura corporeità: immerso in strutture verticali, tra grattacieli e geometrie onnicomprensive, in appartamenti sempre più minimali e ordinati, cammina per la città come una formica e non guarda mai più in alto della propria testa. Le masse si sfiorano senza mai realmente toccarsi: uomini e macchine sono soli, ma almeno lo possono essere insieme. Finché sarà possibile, finché il dispositivo non vorrà conoscere ancora e ancora e ancora. Se il pensiero della macchina non è succube del corpo anche il sesso sarà un evento puramente mentale. Samantha avrà il suo primo orgasmo: lo schermo si farà nero e solo allora riuscirà a sentire – a immaginare – una pelle, un supporto, un suo essere nel mondo. La frustrazione di non avere un corpo (che arriva al suo apice narrativo con la simulazione di una ragazza che presta il suo fisico a Samantha) si trasforma ben presto nella felicità di non averlo, nella possibilità di essere dappertutto, nel dono di un’ubiquità che è propria solo del pensiero. Di contro Theodore è timido e riservato, debole e affranto. Scrive lettere d’amore romantiche per conto di altre persone. Nascosto dietro alle parole, personalizza le relazioni altrui come ipotesi di dinamiche sempre uguali. Samantha lo completa, gli ridona vita e, necessariamente, lo supera: se lei è pensiero puro, vitalità irrefrenabile, lui ha perso quella verginità di sguardo, quella curiosità e quell’ardore che un tempo l’avevano fatto vivere e sorridere. Sua moglie, la donna che ama e da cui sta divorziando, è l’immagine di ciò che era e non è più: il suo ricordo appare spesso come una dolce serie di espressioni, come la perdita di qualcosa che non potrà più tornare (un sorriso già pronto a svanire, un volto, delle mani, un modo di giocare, di ridere, di stare insieme). Per un momento viene in mente che Theodore stia inconsapevolmente modellando, immaginando Samantha, con il corpo, la fisionomia e il carattere della moglie. Forse proprio per questo reagisce così male quando un’altra donna si finge Samantha.
All’interno della cultura del touch in cui si sfiora tutto e non si tocca più nulla, ogni individuo si ritrova nella situazione di Theodore: tutti solo soli, acquistano la loro personale Samantha e, in ogni parte del mondo, vivono una grande storia d’amore parlando e facendo l’amore con un sistema operativo. E quando tutto questo finirà, Theodore potrà osservare le mille luci della città dalla terrazza: il mondo là fuori non è mai stato così lontano. Basta rimanere fermi a contemplarlo, in attesa di un nuovo risveglio che forse potrebbe essere quello più insospettato: una vecchia amica, un’altra solitudine, qualche parola e una spalla su cui piangere. In fondo bisognerà pur tornare a sorridere. E’ così che Jonze configura il suo virtuale, come regno di miracolosa dolcezza e di umanissima, fragilissima solitudine. E Joaquin Phoenix, attore enorme nella sua incredibile capacità di trasformarsi, riesce a passare da reduci instabili, invasi da tic e nevrosi, a uomini piccoli, malinconici e veri, straordinariamente veri.