Ariaferma
“Ariaferma non è un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere.” Leonardo Di Costanzo
Anche nel primo film di fiction di Leonardo Di Costanzo c’erano un carceriere e una prigioniera, giovanissimi, soli nel silenzio di un edificio abbandonato, costretti dalle circostanze, all’improvviso, a esplorare e mettere in discussione i loro ruoli. Di sorvegliante (per volontà della camorra) e sorvegliata, di adolescenti nel qui e ora di una realtà dura e cruda, forse anche di uomo e donna. Alla ricerca, però, di una falla nel sistema: di una possibilità di cambiamento, di empatia, perfino di dolcezza.
Lo schema de L’intervallo lo ritroviamo tale e quale in Ariaferma, ma il contesto non è più quello marginale e intimo di due ragazzini alla periferia del mondo, bensì quello ufficiale, rigido, pesante, immutabile (?) dell’istituzione carceraria.
In un paesaggio lunare e immobile dove bianche pareti rocciose si perdono nella nebbia lattiginosa, l’immenso carcere di Mortana se ne sta come un grosso animale addormentato. Avamposto dimenticato di un deserto in attesa dei Tartari, il fatiscente e tuttavia incombente edificio ottocentesco ha gettato, sui pochi che ancora lo abitano, l’incantesimo dell’immobilità. Perché il carcere dovrebbe essere chiuso, ma all’ultimo momento arriva un contrordine: la struttura che avrebbe dovuto ospitare gli ultimi dodici detenuti è momentaneamente impossibilitata a farlo. Dovranno quindi restare, lo sparuto gruppo di prigionieri e quello altrettanto esiguo di agenti, a tenersi compagnia nell’aria ferma e stantia di questo carcere-mondo, bolla sospesa nel tempo e nello spazio, in attesa di un ordine di trasferimento che potrebbe arrivare l’indomani o forse mai.
In questa dimensione kafkiana, ovattata, spaesante e liminale, le regole che finora hanno plasmato e impostato la quotidianità carceraria si mostrano subitamente in tutta la loro natura assiomatica e astratta, apparendo al contempo irrinunciabili - perché sono le regole a fare i ruoli e i ruoli a fare l’identità, altrimenti fragile – e nondimeno assurde – perché l’emergenza in atto ridicolizza e sospende la cesura, spingendo verso la contiguità.
Che fare? Opporre resistenza o assecondare quella pulsione istintiva, e tutta umana, a comprendere e solidarizzare in un orizzonte in cui però la fiducia è sempre un rischio? Il dubbio, assieme alla consapevolezza di muoversi pericolosamente su un confine sottilissimo, morde la coscienza dell’agente Gargiulo (Toni Servillo) che con il detenuto Lagioia (Silvio Orlando) ingaggia una partita senza vincitori, uno scontro che diventa confronto. Due interpretazioni eccellenti a dominare la scena di questa prigione che si fa arena e palcoscenico – gran parte dell’azione di svolge in una rotonda sulle cui pareti si affacciano le celle, poche le fughe in un esterno dove tutto, del resto, sembra cristallizzato nella rigidezza dell’aria invernale.
Ma Ariaferma è anche un film corale, dove ogni detenuto e ogni carceriere racconta e incarna una storia, una lettura delle cose, una possibilità. Non è un atto d’accusa, non è ricerca di senso ma piuttosto constatazione della sua assenza. “Ariaferma non è un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere”, afferma infatti il regista.
Supportato da una scenografia che è luogo/ambiente in grado di innescare autonomamente un discorso che si fa politico e sociale, sostenuto da una colonna sonora espressiva e densa, il film di Leonardo Di Costanzo ha la capacità - che accomuna non solo tutto il grande cinema ma anche tutte le grandi narrazioni - di dire dell’universale attraverso il particolare. E lo fa con un linguaggio asciutto e attentissimo, capace di dare vita alla tridimensionalità dello spazio – i corridoi deserti e senza fine, le celle soffocanti, l’architettura opprimente – e di restituire tutta la potenza espressiva dei volti umani: la tensione, la diffidenza, l’amarezza, e infine la speranza cauta della conciliazione, dell’intesa, della solidarietà.