Gli amanti del Pont-Neuf
Omnia vincit amor: Imparare a sognare, ad amare, quindi tornare a vedere: il sacro motore del cinema di Carax in una fiaba d’amore senza fine.
Gli amanti del Pont-Neuf è forse il film d'amore più bello della Storia (del cinema, dell'audiovisivo, e probabilmente oltre; della vita), e il cinema caraxiano - con le sue permutazioni visive, le sue lanterne magiche sporchissime, caleidoscopiche, i suoi virtuosismi eccedenti, deliranti, la sua carica nouvelle vague, i suoi carnevali di movimento estremo e lisergico alla ricerca dell'umano – è l'ultimo cinema romantico. Romantico che più romantico non si può, che più romantico si muore - e in effetti succede, a volte. Ma non qui. Gli amanti del Pont-Neuf è una fiaba. Che sembra voler raccogliere in sé i primordi, le immagini archetipiche e fondative del racconto amoroso su pellicola, essere primo e unico, e al tempo stesso riunire organicamente le suggestioni che lo hanno preceduto (e quelle che verranno...); un unicum contraddittorio, ipercinetico/cinefilo, con un sapore di incontaminato, come un primo amore che è anche fou. Che è pieno di grazia, di promesse e innocenza, e che è totalizzante, assolutista, tiranno, matto. Puro e (mai) semplice.
Una fiaba dunque, e come tutte le fiabe una storia d'amore: boy meets girl, boy loves girl, e viceversa. C'è un principe, che è più che altro un garzone, un Cenerentolo, con il volto incredibile dell'alter ego Denis Lavant, folletto vagabondo, principe di tutti i colori che si desiderino, Lavant e il suo corpo-mondo, feticcio inesauribile. C'è una principessa, una fata; una piratessa con benda d'ordinanza sull'occhio guasto; Juliette Binoche, musa, dea, Prima Donna sempre. Boy e Girl, poveracci degradati ai confini della terra sociale, della normativa civile, della polis. Si vengono incontro subito, dopo una manciata di inquadrature, e si stringono in un Eden decaduto, brutto sporco e buono, buonissimo, come loro, Adamo ed Eva bambini, accattoni dentro una poesia. In ogni fiaba c'è la magia, e c'è l'amore, e per Carax non vi è separazione concepibile fra loro; l'amore qui è magia più che in qualsiasi rilascio industriale disneyano o hollywoodiano, ed è un superpotere. Carax fa film d'amore e di supereroi, supereroi innamorati e bambini, che si amano davvero, punto, in un breve incontro (ripetuto) fra il loro mondo isolato e quello che c'è fuori, che lo graffia ma non lo sforma mai. I dispositivi di videosorveglianza, controllo e vergogna in prigione, le umiliazioni, le botte in polizia, lo Stato fantasma che li raccoglie come bestiame inutile, come rifiuti, le famiglie invisibili, imperative, mostruose; eppure nulla della realtà sempre incombente li scalfisce, Alex e Michèle - né Carax perde l'equilibrio, il baricentro della fiaba. Quel che c'è basta a se stesso, e mai si inquina di programmaticità sensazionalistiche o virtuosistiche. Niente esiste ed è davvero fatale, per i nostri eroi, all’infuori del mondo che loro vedono. Per questo nulla li schiaccia, li vince, ed essi tutto possono: piegare il tempo e lo spazio, renderli compatibili con la loro interiorità, con la loro gioia; tutto diventa eterno paesaggio sentimentale, senza limiti (anche formali), florido di sogno - che scaturisce da qualsiasi stimolo: finché potremo danzare sull'eco dei fuochi artificiali, tutto andrà bene.
Poi, come ogni fiaba, c'è un aiutante, un guardiano, un compagno d'arme e di sventura, saggio e anziano; un custode di luoghi e un protettore di anime. «Tu devi vivere», dice egli ad Alex. «L'amore non sta qui», fiorisce da un'altra parte, si costruisce altrove. Infatti Alex e Michèle, come tutti gli eroi, si ribellano a una legge. Fanno nascere l'amore illegittimamente, in una zona purgatoriale, in un confino dimenticato. L'immaginario romantico caraxiano riporta l'amare a una dimensione di lotta (inconsapevole) contro il sistema cieco e punitivo, a una pulsione eroica; chi ama è un ribelle, un disgraziato, e viceversa, di nuovo, solo i miserabili e i bambini amano così. Correndo e urlando, tenendosi per mano e per il sesso, chiamandosi col proprio nome e gioendone, buttandosi per strada, fra le macchine e la neve. «Questo genere di certezza si prova una sola volta nella vita» diceva Clint chino su altri ponti. E l'esperienza dell'amore raccontato così, vis(su)to così, l'amore che ti arriva addosso e dentro infantile e feroce, con un'autoevidenza sfrenata, tenera e selvaggia, dice ancora e sempre di un cineasta impavidamente onesto, inesorabilmente lirico e turbolento nell'accarezzare parabole di miseria, nel ricoprirle di incantamento e di un cocciuto desiderio di lieto fine, pure con la tragedia che respira dietro a ogni fotogramma, nascosta fuori campo - Alex che fa le capriole sul bordo del ponte, i clacson, la pistola, i ricordi epilettici. Ma i nostri eroi, come detto, quella tragedia non la guardano mai. Si divincolano dalla verosimiglianza; credono e basta, nella bellezza del gesto d'amore, nella sua superpotenza. E per questo le prove da superare, i nemici da sconfiggere, con il fuoco, con l'attesa dietro le sbarre, gli anni che si accavallano, si superano con un battito di ciglia, un cambio d'inquadratura; tutto può accadere, e l'amore ritorna come premio finale, trionfa mentre Alex e Michèle cambiano di prospettiva, abbandonano il ponte, ne creano uno nuovo fra di loro, si perdonano sott'acqua, omaggiano L'Atalante e profetizzano Titanic, ultimo uomo e ultima donna sulla Terra e nei film.
«Si ha solo una vita», un amore, un cinema che li abbracci tutti. Eccolo. Capace di creare ponti a sua volta, e che non può (non vuole) insegnare a dimenticare, ma a sognare sì. E Gli amanti del Pont-Neuf, finito a essere operazione autodistruttiva e maledetta per Leos, è un sogno lungo un giorno e una storia infinita, un film che guarisce da una malattia della vista, e forse sta tutto qui il cinema di Carax, il suo motore sacro: nel cercare di aggiustare i propri occhi, per vedere una casa in un ponte rotto, la donna della propria vita in una pezzente tutta storta. Andare dentro, andare dietro i paraventi, i veli, smettere i propri filtri, immergere lo sguardo in un'alterità, trovarne la magia, la favola. L'etica, il senso. L’immagine vera, eroica. Tornare a vedere, perché si è imparato ad amare.