Rosso sangue
Rosso sangue è autentica poesia visiva, ed è in questa sua sfacciata libertà espressiva che risiede la sua forza dirompente, che fa di esso un eccezionale esempio di cinema oltre il cinema.
Ero un bambino stranamente silenzioso dicevano, stavo sempre in silenzio…ma non è vero, è il silenzio che sta dentro noi.
Anarchico, potente, disperato, Rosso sangue è una lezione di stile e assieme una meditazione sull’amore che qui è pulsione implosiva, che brucia la pelle, destinata ad autoannientarsi. Il protagonista Alex – ancora una volta Denis Lavant, quasi un alter ego del regista – è energia allo stato puro, che cresce, divora e distrugge. L’oggetto dei suoi sguardi, Anna – una giovanissima e incantevole Juliette Binoche, non ancora pittrice clochard sul Pont-Neuf – è una musa silenziosa, il cui volto è un paesaggio dolcissimo al quale accostare campiture di colore in forma di fazzoletti di carta stropicciata, per asciugare un pianto inarrestabile che è “come un’emofilia”. Giallo/blu/verde/rosso, mentre lui fa giochi di prestigio per ingannare il dolore di lei, che però è e resterà innamorata soltanto di Marc (Michel Piccoli).
Il plot da gangster movie fantascientifico non ha importanza, è un pretesto per raccontare una Parigi notturna e bollente – il clima impazzisce per il passaggio di una cometa – pericolosa e angosciante – una malattia mortale contagia tutti quelli che fanno l’amore senza sentimento. E’ il pretesto, ancora, per far camminare i personaggi sul filo del rasoio e metterli davanti alle proprie paure (Anna, il vuoto e il lancio con il paracadute), ai propri fantasmi (Alex, l’ombra del padre appena assassinato, il tentativo lacerante di sottrarsi a un destino già scritto) e ai propri desideri (l’amore soltanto vagheggiato tra Alex ed Anna, quello consumato e poi rinnegato tra Alex e Lise).
Tra i film di Leos Carax, spesso sovraccarichi, debordanti e perturbanti, Rosso sangue (nell’originale francese Mauvais Sang, sangue cattivo) è probabilmente il più limpido e fulminante. Se nell’episodio Merde del trittico Tokyo (ancora con Lavant) l’imperativo sarà la provocazione attraverso il disgusto, qui un Carax più giovane e forse meno disilluso sembra voler provocare attraverso la ricerca audace e disinibita della bellezza, una bellezza sempre sovversiva, ora tagliente e ora ruvida, che appartenga tanto ai modi della rappresentazione quanto all’oggetto rappresentato. La forma per la forma insomma ma, paradossalmente, senza andare a discapito dei contenuti che sono, in ultimo, universali (la volontà di autoaffermazione, l’amore e il desiderio, la seduzione del rischio, la morte). Privo di indugi nel ritmo denso e sostenuto (diversamente da quanto accadrà in Pola X e Holy Motors) Rosso sangue è autentica poesia visiva, ed è in questa sua sfacciata libertà espressiva che risiede la sua forza dirompente, che fa di esso un eccezionale esempio di cinema oltre il cinema, oggetto luminescente e meraviglioso al cui fascino intrigante, nero e sanguigno è impossibile sottrarsi.
In questa Parigi di fine millennio già proiettata verso un futuro velenoso e ostile è molto facile morire - sui binari della metro oppure con un proiettile nella pancia - è impossibile stare fermi, perché c’è sempre qualcuno da inseguire o dal quale scappare – una ragazza sulla moto, una vecchia gangster americana, la polizia, o semplicemente la propria sorte avversa – ed è difficile non pensare all’amore - quello che tormenta Lise, strappata dal suo Eden con Alex (vedi le scene nel bosco) e rigettata in un universo metropolitano caotico e respingente, o quello che nutre il cuore di Alex di fronte ad Anna, che è in ultimo mera contemplazione estatica, tiepida traccia di speranza a illuminare le notti.
Pochi film possiedono, al pari di questo, tale immediatezza e al contempo tanta disinvoltura linguistica. Rosso sangue è intimamente notturno, con sprazzi di blu elettrico e rosso vivo a interrompere il buio (la predilezione di Carax per i colori primari è degna di un dipinto di Mondrian); primissimi piani e dettagli – occhi, mani, labbra, una sigaretta che viene accesa – sono sintagmi di un discorso che la macchina da presa isola, lentamente, uno alla volta, parcellizzando la realtà in un mosaico perfettamente calibrato, nel quale ogni frammento è un elemento autonomo che estromette il resto e tuttavia, al contempo, pungola il desiderio dello sguardo a cercare quel fuori campo tagliato. Una lacrima, un sorriso, una smorfia, poi una carrellata a inseguire la danza folle di Alex, quasi una corsa sulle note di Modern Love di David Bowie – forse una delle sequenze più avvincenti, e giustamente più note, dell’intero film.
Al suo secondo lungometraggio Carax è insomma già un maestro della geometria, del colore, del movimento, della relazione – qui spesso disgiuntiva, perché inoltre Alex è un ventriloquo – tra immagine e suono. Nel suo tormentato protagonista inscrive, a chiare lettere, l’attrazione fatale per l’abisso, la stessa che lo dominerà una volta “rinato” – stesso nome, stesso attore – nel successivo Gli amanti di Pont-Neuf.