Vivarium
Un film Sci-Fi che sembra uscire da un sogno anni ‘50 di famiglia atomica andato a male, trasformato in incubo contemporaneo sulla natura perversa e aliena del mercato immobiliare.
Alla sua seconda regia Lorcan Finnegan ci conduce dentro una dark city a tinte pastello, vuota e senza via d’uscita, dove tutto è a imitazione del vero, in un loop asfittico di case geometricamente disposte in un labirinto dell’identico – come nemmeno in un universo pop gotico di burtoniana memoria – dove non c’è nessuno e il cielo è solcato da nuvole perfettamente ordinate e simmetriche. Un universo disabitato di solitudine. Un perturbante reso ancor più strano da un senso di sospensione surreale, come ci trovassimo dentro il quadro magrittiano che Gemma e Tom (Imogen Poots e Jesse Eisenberg) vedono in quella che sarà la loro dimora, per sempre. Vivarium mette sotto la lente d’ingrandimento della distopia contemporanea il desiderio di abitare: una casa e un mondo, la cui natura è violenta, con chi rimane indietro – e si scontra con la corsa al mutuo (l’ombra lunga della crisi del 2008 non è un ricordo sbiadito) e l’impennata dei prezzi.
Il film si apre con una scena ornitologica eloquente – in cui piccoli volatili appena usciti dal guscio lottano per la sopravvivenza a scapito dei più deboli della nidiata – prima di entrare nell’inferno ovattato di Yonder: un suburb di felicità prefabbricata a misura di famiglia, dove il senso di omologazione di massa consumistica viene ribaltato in un quadro terrificante di solitario, angoscioso isolamento. A Yonder apparentemente non abita nessuno, è un agglomerato residenziale senza vita, come la malcapitata giovane coppia avrà modo di appurare, traghettata in questo limbo di esibita e ridondante artificiosità da un inquietante agente immobiliare che si dilegua nel nulla mentre i due visitano l’abitazione. Bloccati come in una dimensione di simulazione “virtuale” della vita dove nemmeno il cibo ha sapore, le aspirazioni e le speranze dei due giovani sono azzerate – ridotte al sogno di una casa che non hanno scelto – e presto si troveranno a dover accudire finanche un neonato consegnatogli in una scatola di cartone come gli altri beni di prima necessità. Una copia identica dell’agente immobiliare, un bodysnatcher che cresce in fretta e che apprende per imitazione, come un’intelligenza aliena o artificiale, le informazioni che Emma e Tom gli forniscono. Tutto è controllato e programmato a Yonder.
Metafora di un presente totalitario di sorveglianza – «they’re always whatching us» dice Emma osservando lo sguardo del bambino – dove ognuno è lasciato “libero” di vivere in una bolla di desideri preconfezionati da qualcun Altro. È insomma la rappresentazione evidente della natura malversatrice di un sistema di valori che fa dell’umano un’appendice funzionale di un apparato alienante, dove l’esistenza si estingue nella coazione a ripetere, ciclica e infinita, consuma riproduci e infine muori, in una dimensione del reale straniante, che rende unicamente più soli. I ruoli in questo gioco di simulazione famigliare sono ipercodificati: a Emma spettano le cure parentali del piccolo replicante, a Tom il lavoro manuale nel tentativo di sfuggire all’insensatezza di quel mondo, cercando la via di fuga in una buca senza fondo che scava in giardino.
Finnegan ci consegna un piccolo b-movie contemporaneo con pochi attori e zero consolazioni. Gioca con la metafora scoperta della struttura invisibile e impersonale del capitalismo, qui non tanto vampiro insaziabile ed eterno ma minaccia aliena endogena, certamente dis-umana nelle sue lusinghe e false promesse di felicità. Un gioco complicato, come cantano sui titoli di coda gli XTC con Complicated Game, gemma post punk di, non a caso, spigolosa circolarità claustrofobica. Troppo complicato per uscirne (vivi o morti).
And it's always been the same
It's just a complicated game